Mese: Agosto 2022

Avvocato tributarista: chi è, cosa fa e quanto costa!

In questo articolo spieghiamo quali sono le caratteristiche dell’avvocato tributarista e quale è la sua funzione all’interno dell’avvocatura.

Dobbiamo prima chiarire però che avvocato tributaristaavvocato fiscalistaavvocato fiscale e avvocato tributario sono, in sostanza, la stessa cosa: si tratta di un avvocato che ha seguito un percorso di specializzazione nel diritto tributario. Il tributarista puro, invece, non necessariamente è un avvocato.

La domanda che molti si pongono è se l’avvocato tributarista può considerarsi un avvocato contro l’agenzia delle entrate.

Se vuoi saperne di più leggi questo articolo oppure guarda il video sul nostro canale.

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1. Come si diventa avvocato tributarista?

La prima cosa che bisogna evidenziare è che l’avvocato tributarista è, prima di tutto, un avvocato.

Questo vuol dire che se si vuole esercitare la professione di avvocato fiscalista occorre innanzi tutto conseguire la laurea in giurisprudenza. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza è necessario:

– aver svolto i 18 mesi di pratica legale;

– superare l’esame per l’esercizio della professione forense.

Successivamente è fondamentale intraprendere un percorso di specializzazione – attesa la complessità del diritto tributario – attraverso la collaborazione con uno studio tributario o con uno studio legale tributario di prima fascia ovvero mediante il conseguimento di un Master tributario di II livello.

In conclusione, al fine di poter esercitare la professione di avvocato tributarista è necessario aver conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forense e seguire un percorso di perfezionamento in diritto tributario: occorre avere quindi una conoscenza approfondita nella materia fiscale e tributaria.

Tutti gli avvocati tributaristi di 4tax hanno collaborato con uno studio tributario o con uno studio legale tributario di primissima fascia e molti di loro hanno frequentato un Master tributario di II Livello.

2. Avvocato fiscalista cosa fa?

L’avvocato tributarista di cosa si occupa?

Difende le aziende e persone fisiche nelle liti tributarie con l’Agenzia delle Entrate, instaurando un contenzioso in Commissione Tributaria Provinciale o in Commissione Tributaria Regionale oppure dinanzi la Corte di Cassazione.

L’avvocato tributario rappresenta i contribuenti nelle controversie contro l’Agenzia delle Entrate o contro l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, impugnando gli atti impositivi con cui il Fisco formula una precisa pretesa tributaria a carico del contribuente.

In primo luogo, l’avvocato tributario svolge attività di tipo contenzioso.

L’avvocato fiscalista assiste i contribuenti in tutte quelle ipotesi in cui tali soggetti – dopo aver ricevuto un atto fiscale – vogliono:

– cercare un accordo con l’Agenzia delle Entrate nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione;

– tentare di annullare l’avviso di accertamento mediante la presentazione dell’autotutela tributaria.

In secondo luogo, l’avvocato tributario svolge anche attività stragiudiziale.

Infine, l’avvocato tributarista può anche svolgere un’attività di consulenza tributaria tipica del consulente ma, di regola, non compie adempimenti fiscali.

3. Quanto costa un avvocato tributarista?

Cerchiamo adesso di capire quanto costa questo avvocato.

Rispondere a questa domanda è molto difficile perché oltre al valore della controversia indicato nelle tariffe professionali occorre considerare molti fattori, tra cui:

– il valore dell’atto impositivo;

– il numero e la complessità delle fattispecie (difendersi da un avviso di accertamento con una contestazione pari a 500.000,00 euro costa meno rispetto a un avviso di accertamento con tre contestazioni che insieme valgono 500.000,00 euro);

– lo studio tributarista, lo studio legale tributario o l’avvocato fiscalista a cui ci si rivolge (affidarsi a uno studio tributario di prima fascia o a un avvocato fiscalista affermato costa di norma molto di più);

– città in cui si trova lo studio legale tributario o l’avvocato tributarista (nelle principali città italiane – quali Roma, Milano, Torino e Napoli – l’avvocato tributarista è più caro);

– urgenza e situazione del cliente.

Avvocato tributarista quanto costa

4. Avvocato tributarista, dottore commercialista e tributarista: quali sono le differenze?

Rispondere a questa domanda è molto difficile. Noi di 4tax abbiamo la nostra visione, frutto di anni di esperienza con i nostri avvocati fiscalisti in tutta Italia.

In uno studio tributarista o in uno studio legale tributario di prima fascia nelle principali città italiane (Roma, Milano, Torino, e Napoli) la figura dell’avvocato tributarista si sovrappone spesso alla figura del dottore commercialista. È infatti possibile trovare un avvocato tributario preparatissimo nella consulenza come è possibile trovate un dottore commercialista bravo nel contenzioso tributario.

Nelle piccole città, nelle quali è difficile trovare realtà professionali molto strutturate ,l’avvocato tributarista rappresenta il contribuente in giudizio mentre il commercialista opera nel settore della consulenza.

L’unica vera differenza è che il dottore commercialista non può assistere il contribuente nel giudizio per Cassazione.

Le figure dell’avvocato tributarista e del dottore commercialista si differenziano dal tributarista puro, che diversamente dalle prime due figure non è necessariamente un professionista iscritto all’albo.

5. Conclusioni

Alla luce delle considerazioni che abbiamo fatto, possiamo concludere dicendo che questo non è un avvocato contro l’Agenzia delle Entrate ma un avvocato che aiuta le imprese a difendersi dalle pretese dell’Amministrazione Finanziaria.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni compila il form.

Fatture false prescrizione del reato!

Fatture false e prescrizione del reato! Spieghiamo quali sono le pene e il termine di prescrizione.

Prima di entrare nel merito del tema “Fatture false prescrizione del reato” vi invitiamo a farvi prima un’idea sul tema delle fatture false leggendo il nostro articolo “Fatture false: 3 esempi e come difendersi“. 

1. Fatture false: i 3 esempi principali

Come abbiamo visto nel nostro articolo la fattura può considerarsi falsa se:

  • è emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate oppure se viene emessa da un soggetto solo formalmente esistente (le c.d. fatture false per operazioni oggettivamente inesistenti);
  • fotografa un’operazione realmente effettuata, ma il prezzo applicato dal cedente o dal prestatore è di gran lunga più elevato rispetto al valore effettivo del bene o del servizio (le c.d. fatture false per operazioni oggettivamente inesistenti per sovrafatturazione);
  • è emessa da un soggetto diverso rispetto al soggetto che ha reso il servizio o ceduto il bene (le c.d. fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti).

2. Fatture false e onere della prova

A chi spetta l’onere della prova nell’ambito dell’emissione delle fatture per operazioni inesistenti?

Il reato di falsa fatturazione deve essere provato dall’Agenzia delle Entrate sulla base dell’articolo2697 del codice civile, secondo cui chi avanza la pretesta tributaria (l’Agenzia delle Entrate appunto) deve provare i fatti a fondamento della sua domanda.

La Corte di Cassazione ha chiarito che è onere dell’Agenzia delle Entrate dare la prova che il contribuente, al momento in cui ha acquistato il bene od il servizio, sapeva o poteva sapere con l’uso della diligenza media che l’operazione era stata effettuata nell’ambito di una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, provando che il contribuente, al momento in cui ha stipulato il contratto, poteva ben comprendere che l’operazione era stata fatta nell’ambito di una frode.

3. Sanzioni penali

Al fine di verificare la prescrizione del reato fatture false occorre innanzi tutto vedere quali sono le sanzioni penali per il reato di falsa fatturazione.

Sanzioni penali per chi utilizza fatture false.

Chi utilizza fatture false al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.

Sanzioni per chi emette fatture false.

Chi emette fatture false al fine di consentire, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.

Ora, delineate le sanzioni penali per chi utilizza e per chi emette fatture false, occorre porre in evidenza che per tale reato non esiste una soglia minima di punibilità. Questo significa che anche l’utilizzo o l’emissione di una fattura falsa per 0,01 euro è penalmente rilevante.

4. Quando si considera commesso il reato di falsa fatturazione

Il reato di utilizzo di fatture false si considera commesso con la presentazione della dichiarazione in cui viene utilizzata la fattura falsa

Il reato di emissione di fatture false si considera invece commesso con l’emissione e registrazione dell’operazione nei relativi registri IVA.

5. La prescrizione del reato di falsa fatturazione 

La prescrizione dei reati (tributari), tra i quali rientra il reato di emissione o utilizzo di fatture false, è sottoposta ad una disciplina del tutto peculiare.

È importante notare che il decreto legislativo n. 74 del 2000 non prevede specifici termini di prescrizione dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto: la disciplina della prescrizione del reato si ricava dai principi generali di cui agli articoli 157 e seguenti del codice penale.

Nella determinazione del termine necessario a prescrivere tali reati occorre considerare che il termine prescrizionale corrisponde al massimo della pena edittale stabilita per il delitto o in ogni caso ad un tempo non inferiore a sei anni.

Il secondo: in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere.

Pertanto, il termine di prescrizione del reato di frode fiscale per falsa fatturazione o per l’utilizzo di altri documenti per operazioni inesistenti è di 8 anni dal momento consumativo, elevabile a 10 anni per effetto dell’interruzione causata dagli atti interruttivi di cui all’articolo 160 del codice penale che vedremo adesso. Passato tale termine senza che si sia arrivati a una sentenza definitiva vi è estinzione del reato.

Fatture false prescrizione – Tabella

6. Fatture false prescrizione del reato: cosa la interrompe?

Il corso della prescrizione del reato per l’emissione di fatture false è interrotto:

  • dall’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto;
  • dall’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero, o al giudice;
  • dall’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio;
  • dal provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio perla decisione sulla richiesta di archiviazione;
  • dalla richiesta di rinvio a giudizio;
  • dal decreto di fissazione della udienza preliminare;
  • dall’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato;
  • dal decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena;
  • dalla presentazione o dalla citazione per il giudizio direttissimo;
  • dal decreto che dispone il giudizio immediato, dal decreto che dispone il giudizio e dal decreto di citazione a giudizio;
  • dal verbale di constatazione o dall’atto di accertamento delle relative violazioni.

È importante notare che una volta interrotta, la prescrizione del reato comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione. 

Come abbiamo detto sopra gli atti interruttivi della prescrizione non possono comportare un aumento della pena maggiore di un quarto. Per il reato di utilizzo o di emissione di fatture false la pena massima non può essere superiore a 10 anni.

7. Fatture false prescrizione del reato e Corte di Giustizia

La normativa italiana relativa all’interruzione della prescrizione per il reato di emissione di fatture false in materia di IVA è compatibile con la normativa comunitaria?

La Corte di Giustizia ha ritenuto che l’aumento del termine di prescrizione del reato, in caso di interruzione, di non oltre un quarto costituisce un ostacolo a sanzionare in modo efficace le frodi gravi.

Ad avviso della Corte di Giustizia i giudici italiani devono disapplicare le norme interne sulla prescrizione che impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive nei casi di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea.

Ad avviso della Corte di Giustizia, i giudici dovrebbero non applicare le norme sul ricalcolo del termine di prescrizione in caso di interruzione, con l’effetto che, in caso di interruzione, i termini ricominciano a decorrere dall’inizio per intero.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Sanzioni tardiva emissione fattura elettronica: come risolvere!

In questo articolo spieghiamo quali sono le sanzioni per tardiva emissione della fattura elettronica e come si può risolvere attraverso il ravvedimento operoso IVA.

1. Momento di effettuazione operazione IVA

Prima di spiegare quali sono le sanzioni per tardiva emissione della fattura elettronica, occorre innanzi tutto capire quando è obbligatorio emettere la fattura elettronica e trasmetterla al sistema di interscambio SDI.

Ora, la normativa IVA – contenuta nel DPR n. 633 del 1972 – disciplina il c.d. momento di effettuazione. Si tratta di un momento a partire dal quale l’IVA è dovuta su una prestazione di servizi o su una cessione di beni.

Per quanto riguarda le cessioni di beni, l’operazione si considera effettuata nel momento della stipula dell’atto nel caso di beni immobili oppure nel momento della consegna o spedizione se riguardano beni mobili.

Le prestazioni di servizi si considerano invece effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo.

Esistono una serie di regole speciali che non ha in questa sede senso ripercorrere, ma va tuttavia evidenziato che se prima degli eventi sopra evidenziati viene emessa la fattura ovvero viene pagato il prezzo l’operazione si considera effettuata.

Secondo la normativa contenuta nell’articolo 21 del decreto IVA, la fattura elettronica:

  • deve contenere l’indicazione della “data in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi ovvero data in cui è corrisposto in tutto o in parte il corrispettivo, sempreché tale data sia diversa dalla data di emissione della fattura”;
  • deve essere emessa “entro dodici giorni dall’effettuazione dell’operazione determinata ai sensi dell’articolo 6 del DPR n. 633 del 1972“.

Occorre notare che l’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 14/E del 17 giugno 2019, ha evidenziato che l’obbligo di emettere la fattura entro dodici giorni riguarda anche le elettroniche veicolate tramite SDI.

Cerchiamo adeso di capire qual è la differenza tra la data della fattura e la data di emissione della fattura.

La data della fattura rappresenta il momento in cui l’operazione si considera effettuata secondo le regole descritte sopra. Se, ad esempio, si riceve un pagamento in data 15 gennaio dell’anno X, la data dovrà recare come data il 15 gennaio dell’anno X.  

La data dell’emissione della fattura elettronica è la data in cui il contribuente provvede a trasmettere la fattura elettronica allo SDI.

2. Sanzioni per tardiva emissione fattura elettronica

La mancata o la tardiva emissione della fattura elettronica entro 12 giorni dall’effettuazione dell’operazione è punita con delle sanzioni molto elevate contenute nell’articolo 6 del decreto n. 471 del 1997.

Le sanzioni per tardiva emissione della fattura elettronica ammontano:

  • fra il 90% e il 180% dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato con un minimo di 500 euro (articolo 6, comma 1, primo periodo e comma 4);
  • da euro 250 a euro 2.000 quando la violazione non ha inciso sulla liquidazione del tributo (articolo 6, comma 1, ultimo periodo);
  • tra il 5% ed il 10% dei corrispettivi non documentati se l’operazione è esente, non imponibile, non soggetta ad IVA oppure soggetta all’inversione contabile. Quando la violazione non rileva neppure ai fini della determinazione del reddito si applica la sanzione amministrativa da euro 250 a euro 2.000 (articolo 6, comma 2).

3. Sanzioni per tardiva emissione fattura elettronica: come risolvere con il ravvedimento!

Le sanzioni da pagare in caso di tardiva emissione della fattura elettronica possono essere ridotte tramite l’istituto del ravvedimento operoso IVA, previsto dall’articolo 13 del decreto n. 472 del 1997.

Vediamo le principali riduzioni delle sanzioni previste da tale norma:

  • 1/10 del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni avviene entro 30 giorni dalla data di omissione o dell’errore;
  • 1/9 del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni avviene entro 90 giorni dalla data dell’omissione o dell’errore;
  • 1/8 del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni avviene entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno nel corso del quale è stata commessa la violazione;
  • 1/7 del minimo, se la regolarizzazione degli errori e delle omissioni avviene entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo a quello nel corso del quale è stata commessa la violazione.

Vediamo degli esempi.

Esempio n. 1

Mario ha ricevuto il pagamento da parte del suo cliente in data 12 gennaio dell’anno X ed ha trasmesso allo SDI la fattura elettronica in data 29 gennaio dell’anno X. In questo caso, la fattura elettronica è stata emessa oltre i 12 giorni ma non ha comportato un minore versamento dell’IVA, dato che l’operazione è stata pur sempre computata nella liquidazione IVA di gennaio.

In questo caso la sanzione applicabile è pari a 250 euro e può essere sanata pagando 1/10 di 250 euro entro 30 giorni dalla trasgressione ovvero 1/9 di 250 euro entro 90 giorni dalla trasgressione.

Esempio n. 2

Mario ha ricevuto il pagamento da parte del suo cliente in data 12 gennaio dell’anno X ed ha trasmesso allo SDI la fattura elettronica in data 7 febbraio dell’anno X. In questo caso, la fattura elettronica è stata emessa oltre i 12 giorni ed ha altresì comportato un minore versamento dell’IVA nel mese di gennaio, dato che l’operazione non è stata computata nella liquidazione IVA di gennaio appunto.

In questo caso la sanzione applicabile è pari al 90% dell’IVA (con un minimo di 500 euro) e può essere sanata pagando (i) 1/10 del 90% dell’IVA (o 1/10 di 500, se il 90% della sanzione è minore di tale importo) entro 30 giorni dalla trasgressione ovvero 1/9 del 90% dell’IVA (o 1/10 di 500, se il 90% della sanzione è minore di tale importo).

4. Se l’ultimo giorno per la trasmissione della fattura elettronica allo SDI è sabato ovvero un giorno festivo è possibile rinviare l’emissione al primo giorno lavorativo?

Va infine precisato che alla fatturazione elettronica non si applica la disposizione di cui all’articolo 7, lettera h), del decreto-legge n. 70 del 2011, che consente di rinviare i versamenti e i pagamenti che scadono il sabato o un giorno festivo al primo giorno lavorativo successivo. Questo parere è stato dato dall’Agenzia delle Entrate nella risposta n. 129 del 2019. Secondo l’Agenzia delle Entrate, l’articolo 7, lettera h), del decreto-legge n. 70 del 2011 riguarda gli adempimenti che il contribuente deve assolvere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, mentre la fattura elettronica, è destinata alla controparte contrattuale affinché quest’ultima possa esercitare alcuni diritti fiscalmente riconosciuti (detrazione dell’IVA e deduzione del costo).

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

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Come presentare un ricorso tributario!

Ricorso tributario, termini e deposito: alcune semplici ma essenziali informazioni!

Se l’Agenzia delle Entrate notifica al contribuente un atto impositivo, vi è la possibilità – qualora si ravvisi l’infondatezza nel merito della pretesa ovvero si ravvisi l’esistenza di vizi di legittimità dello stesso – di presentare un ricorso tributario.

Se hai necessità di capire come predisporre un buon ricorso, qui di seguito trovi l’essenziale per iniziare. A questo link trovi le indicazioni dell’Agenzia delle Entrate.

Ti segnaliamo però, in relazione ai motivi di impugnazione, che non esiste un modo preciso su come predisporre un ricorso alla Commissione Tributaria: ogni atto impugnato è diverso dall’altro a seconda della contestazione operata dall’Agenzia delle Entrate.

1. Gli istituti deflattivi del contenzioso tributario

È importante notare che prima di presentare un ricorso tributario, occorre sempre valutare la possibilità di definire la pretesa fiscale mediante istituti deflattivi del contenzioso tributario. Il ricorso alla Commissione Tributaria non è sempre la giusta soluzione.

Non sempre infatti è consigliabile instaurare una lite contro l’Agenzia delle Entrate ovvero contro l’Agenzia delle Entrate-Riscossione senza aver dapprima valutato la possibilità di pervenire ad un buon accordo con il fisco.

Gli istituti deflattivi del contenzioso tributario sono:

– il procedimento di accertamento con adesione;

– l’acquiescenza;

– la definizione agevolata delle sanzioni;

– l’accordo di mediazione.

2. Quali atti possono essere impugnati in Commissione Tributaria?

In linea generale i ricorsi tributari possono essere presentati in relazione a tutti gli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate e in relazione alla maggior parte degli atti emessi dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione.

Sono, in sostanza, impugnabili i provvedimenti con i quali si determina una precisa pretesa tributaria a carico del contribuente. In particolare, può essere presentato un ricorso avverso:

– l’avviso di accertamento del tributo;

– l’avviso di liquidazione del tributo;

– il provvedimento che irroga le sanzioni;

– il ruolo e la cartella di pagamento;

– l’avviso di mora;

– l’iscrizione di ipoteca sugli immobili;

– il fermo amministrativo;

– gli atti relativi alle operazioni catastali;

– il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie e d’interessi o altri accessori non dovuti;

– il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;

– ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie.

3. Notifica del ricorso tributario

Se hai deciso di impugnare l’accertamento fiscale ovvero la cartella di pagamento che ti è stata notificata, devi presentare un ricorso tributario entro il termine di 60 giorni, a decorrere dalla data di notifica dell’atto.

Se hai presentato istanza di accertamento con adesione (solo nei casi di accertamento fiscale) ed hai deciso di presentare ricorso, puoi farlo entro il termine di 150 giorni dalla notifica dell’atto impositivo da parte dell’Agenzia delle Entrate.

La notifica del ricorso all’Agenzia delle Entrate ovvero all’Agenzia delle Entrate-Riscossione da parte del contribuente deve esclusivamente avvenire a mezzo PEC, secondo le indicazioni contenute nella normativa inerente al Processo Tributario Telematico (PTT).

La notifica del ricorso tributario a mezzo PEC (indirizzo di posta elettronica certificata) è diventata obbligatoria dal 1° luglio 2019 – a seguito delle modifiche apportate con il decreto-legge n. 119/2018,convertito nella legge 17 dicembre 2018, n° 136 – all’articolo 16-bis del decreto legislativo n. 546/92.

Nel ricorso tributario, oltre all’indirizzo di posta elettronica certificata, deve essere inserito anche il codice fiscale del difensore e del contribuente.

Ricordiamo che oggi non è più possibile notificare il ricorso mediante consegna diretta.

4. Termine iscrizione a ruolo del ricorso tributario in Commissione Tributaria

Il termine per la costituzione in giudizio del ricorso ctp è a pena di inammissibilità di 30 giorni, a decorrere dalla notifica del ricorso alla controparte. Per le controversie aventi un valore inferiore ai 50.000,00 – per le quali deve essere presentata mediazione – il termine di 30 giorni per la costituzione in giudizio decorre dopo novanta giorni dalla notifica del ricorso tributario.

Il ricorso tributario deve essere depositato presso la Commissione Tributaria Provinciale che ha sede nella medesima circoscrizione dell’ufficio dell’Amministrazione Finanziaria (Agenzia delle Entrate ovvero Agenzia delle Entrate-Riscossione) che ha emesso l’atto impositivo.

Ingenerale la maggior parte degli atti impositivi presentano l’indicazione della Commissione Tributaria Provinciale cui indirizzare il ricorso. Per non sbagliare, quindi, consigliamo sempre di leggere attentamente tra le avvertenze che ogni atto impositivo reca per evitare di sbagliare la Commissione Tributaria dove depositare il ricorso.

È importante notare che per depositare un ricorso è obbligatorio avvalersi del Processo Tributario Telematico, registrandosi al SIGIT.

Perle controversie con valore fino a euro 3.000, i contribuenti non hanno un obbligo di avvalersi del Processo Tributario Telematico ben potendo presentare un ricorso senza l’ausilio di un difensore abilitato.

5. Il contributo unificato tributario

Al fine di poter depositare un ricorso tributario contro l’Agenzia delle Entrate ovvero contro l’Agenzia delle Entrate-Riscossione è necessario provvedere al pagamento del contributo unificato tributario. L’importo del contributo unificato tributario è determinato sulla base del valore della controversia sulla base dei valori che seguono:

·        30,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 0 e 2.582,28 euro;

·        60,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 2.582,29 e 5.000,00 euro;

·        120,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 5.000,01 e 25.000,0 euro;

·        250,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 25.000,01 e 75.000,01 euro;

·        500,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 75.000,01 e 200.000,00 euro;

·        1.500,00 euro, per controversie aventi un valore da 200.000,01 euro in su.

Occorre sottolineare che il contributo unificato tributario è dovuto per ogni grado di giudizio da parte del soggetto che intende instaurare la lite. Se, ad esempio, il contribuente ha avuto un esito positivo in primo grado, lo stesso non avrà necessità di appellare la sentenza e conseguentemente non dovrà versare il contributo unificato. Se, invece, il contribuente ha avuto una sentenza negativa in primo grado e intende proporre appello in Commissione Tributaria Regionale, deve pagare il contributo unificato.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni puoi inviarci una mail all’indirizzo 4tax.it@4tax.it o compilare il form di contatto qui sotto.

Fatture false: 3 esempi e come difendersi!

In questo articolo spieghiamo come ci si può difendere se ti contestano l’utilizzo di fatture false.

Hai un’impresa ovvero sei un lavoratore autonomo e ti contestano l’utilizzo di fatture false relative a operazioni inesistenti?

Se sì, ti conviene leggere questo articolo.

1. Cosa sono e perché si fanno!

Deve innanzi tutto precisarsi che quando si parla di fatture false ci si riferisce alle c.d. fatture inesistenti.

Fatture false e fatture inesistenti sono, quindi, la stessa cosa.

Le fatture false inesistenti sono uno strumento non lecito che viene utilizzato sia da parte di società sia da parte di lavoratori autonomi per aumentare l’ammontare complessivo dei costi sostenuti.

Il motivo principale per cui una società o un lavoratore autonomo hanno interesse ad aumentare il volume dei costi sostenuti attraverso l’utilizzo di fatture false è quello di evadere le imposte. Ogni qualvolta viene utilizzata una fattura falsa, una società o un lavoratore autonomo paga, in sostanza, meno tasse alla fine dell’anno nella propria dichiarazione dei redditi. Attraverso queste operazioni fittizie nella contabilità aziendale vengono quindi annotati costi più alti e dichiarati utili complessivi più bassi rispetto a quelli effettivamente realizzati.

Guarda qui il nostro video.

2. Fatture false: cosa rischi?

Le sanzioni amministrative applicabili nei casi di fatture false relative a operazioni inesistenti variano dal 135% al 270% dell’imposta evasa.

Sotto il profilo penale chi utilizza fatture false relative a operazioni inesistenti rischia dai 4 agli 8 anni di reclusione. La stessa pena viene applicata a chi emette fatture false relative a operazioni inesistenti per consentire a terzi l’evasione delle imposte.

3. Quanti tipi di fatture false esistono?

Bisogna evidenziare che le modalità attraverso le quali si possono evadere le tasse con l’utilizzo di fatture false sono molteplici.

Tuttavia, si è soliti suddividere le fatture false o inesistenti in tre macro categorie.

Prima ipotesi di fattura falsa

La prima ipotesi di fatture false si ha ogniqualvolta la fattura viene emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate.

L’esempio classico è il seguente.

La Società A emette una fattura di 1.000,00 euro nei confronti della Società B ma non esiste alcuna operazione (cessione di beni o prestazione di servizi): l’operazione esiste quindi solo sulla carta. Questo è il caso delle operazioni oggettivamente inesistenti (le cd. fatture false relative a operazioni oggettivamente inesistenti).

Il caso dell’utilizzo di fatture false per operazioni oggettivamente inesistenti si ha anche quando la fattura viene emessa da un soggetto solo formalmente esistente: società di capitali nella forma della S.r.l. che non ha dipendenti, che non ha un luogo in cui esercita l’attività e che generalmente dopo nemmeno due anni dalla costituzione viene cancellata dal registro delle imprese (c.d. società cartiera).

L’esempio classico è il seguente.

La Società A (che è appunto solo formalmente esistente) emette una fattura falsa di 1.000,00 euro nei confronti della Società B a fronte di operazioni mai effettuate.

Seconda ipotesi di fattura falsa

La seconda ipotesi di fatture false si ha ogniqualvolta l’operazione è stata realmente effettuata ma il prezzo applicato dal cedente/prestatore è di gran lunga più elevato rispetto al valore effettivo del bene o del servizio.

L’esempio classico è il seguente.

La Società A acquista dalla Società B un servizio di progettazione il cui costo è di 1.000,00 euro, ma la Società B emette nei confronti della Società A una fattura di 5.000,00 euro. Questo è il caso delle fatture false per sovrafatturazione (le c.d. fatture false per operazioni oggettivamente inesistenti per sovrafatturazione).

Terza ipotesi di fattura falsa

La terza ipotesi di fatture false si ha ogniqualvolta l’operazione è stata realmente effettuata ma il soggetto che emette la fattura è diverso dal soggetto che ha reso il servizio o ceduto il bene.

L’esempio classico è il seguente.

La Società A acquista dalla Società B un servizio di progettazione il cui costo è di 1.000,00 euro, ma la fattura di 1.000,00 euro viene emessa dalla Società C e non dalla Società B. Questo è il caso delle fatture false sotto il profilo soggettivo (le c.d. fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti).

4. Fatture false: come difendersi!

In questo paragrafo spieghiamo come ci si può difendere nelle ipotesi in cui venga contestato dall’Agenzia delle Entrate l’utilizzo o l’emissione di una fattura per operazioni inesistenti.

Prima ipotesi

Come abbiamo accennato sopra, in questo caso secondo l’Agenzia delle Entrate ovvero secondo la Guardia di Finanza l’operazione non è mai è stata effettuata. Come ci si può difendere? Al fine di difendersi da questa contestazione, il contribuente dovrà fornire:

  • copia del contratto di vendita;
  • copia dell’ordine effettuato:
  • copia della corrispondenza;
  • prova del pagamento effettuato.

Qualora venga anche contestato il fatto che il cedente del bene o il prestatore del servizio è un soggetto fittizio occorrerà presentare documentazione volta a contrastare tale contestazione. In particolare, il contribuente – oltre ai documenti sopra citati – dovrà fornire:

  • i bilanci e le dichiarazioni del fornitore del servizio o del cedente del bene;
  • una visura completa;
  • le prove dell’effettivo svolgimento di un’attività commerciale;
  • la prova dell’esistenza della sede legale e della sede operativa del fornitore o del cedente.

Seconda ipotesi

Come abbiamo accennato sopra, in questo caso secondo l’Agenzia delle Entrate ovvero secondo la Guardia di Finanza l’operazione è stata effettuata applicando un prezzo superiore rispetto al valore del bene o del servizio acquistato.

Come ci si può difendere? Al fine di difendersi da questa contestazione, il contribuente dovrà innanzi tutto fornire delle osservazioni di tipo logico. Può essere in particolare utile confrontare il prezzo applicato dalle parti – alle quali viene fatta la contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate ovvero dalla Guardia di Finanza  –  con il prezzo applicato da altri fornitori al servizio reso o al bene ceduto.

Il confronto dimostrerà che il compenso o il prezzo indicato in fattura è in linea con quello di mercato, facendo decadere la contestazione.

Terza ipotesi

Come abbiamo accennato sopra, in questo caso secondo l’Agenzia delle Entrate ovvero secondo la Guardia di Finanza l’operazione è stata effettuata ma il soggetto che emette la fattura non è l’effettivo fornitore del servizio ovvero l’effettivo cedente del bene.

Come ci si può difendere? Al fine di difendersi da questa contestazione, il contribuente dovrà ricostruire in maniera precisa e puntuale la documentazione al fine di dimostrare che l’operazione non solo dal punto di vista cartolare(contratti e fatture) ma anche dal punto di vista sostanziale è stata effettuata con il soggetto che ha emesso la fattura.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni compila il form

Accertamento bancario Agenzia delle Entrate

L’accertamento bancario è uno dei principali strumenti utilizzati dall’Agenzia delle Entrate per individuare i redditi evasi da parte delle imprese e da parte delle persone fisiche. Si tratta, in sostanza, di indagini finanziarie che vengono effettuate dall’Agenzia delle Entrate (amministrazione finanziaria) per controllare i movimenti bancari del contribuente. L’obiettivo del Fisco è controllare la corrispondenza di ogni singola movimentazione effettuata dal contribuente (versamenti bancari e prelievi) con i redditi dichiarati da quest’ultimo ai fini dell’accertamento del maggior reddito.

In quest’articolo spieghiamo come funziona e come ci si può difendere dalle richieste effettuate dall’Agenzia delle Entrate mediante la notifica al contribuente di un avviso di accertamento bancario.

1. Accertamento bancario Agenzia delle Entrate: a chi è rivolto?

L’accertamento bancario può essere effettuato dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza nei confronti di :

  • imprenditori;
  • professionisti:
  • un lavoratore autonomo;
  • imprese.

Tali soggetti possono essere oggetto di verifica da parte dell’Agenzia delle Entrate e da parte della Guardia di Finanza (sia come titolari dei conto sia come cointestatari).

Occorre notare che nell’accertamento bancario l’Agenzia delle Entrate:

  • può utilizzare nei confronti del contribuente anche le movimentazioni relative ai conti correnti di altri soggetti;
  • può imputare all’impresa le movimentazioni transitate sui conti correnti intestati al socio, all’amministratore o ai relativi familiari.

In questi casi, l’onere della prova spetta al Fisco. L’Agenzia delle Entrate deve in particolare dimostrare che il soggetto a cui è intestato il conto corrente è solo formalmente il titolale, dovendosi invece attribuire le movimentazioni finanziarie effettuate (versamenti e prelevamenti) ad un altro contribuente.

2. Accertamento bancario Agenzia delle Entrate: come funziona?

Con l’accertamento bancario l’Agenzia delle Entrate analizza le movimentazioni rilevate sul conto corrente bancario del contribuente con l’intento di accertare redditi sottratti a tassazione. L’obiettivo degli uffici finanziari è dimostrare che i versamenti e i prelevamenti effettuati si riferiscono ad operazioni imponibili ai fini reddituali che non sono stati dichiarati.

Gli accertamenti relativi ai maggiori redditi da recuperare a tassazione considerano:

  • i versamenti, se il contribuente non dimostra(i) che li ha considerati in dichiarazione o (ii) che non avrebbe dovuto considerarli ai fini della dichiarazione;
  • i prelevamenti, se il contribuente non dimostra chi è il beneficiario degli importi.

3. Cosa considera l’Agenzia delle Entrate nell’ambito di un accertamento bancario?

L’accertamento bancario Agenzia delle Entrate considera:

  • il conto corrente del contribuente;
  • il libretto deposito del contribuente;
  • il conto titoli;
  • le operazioni effettuate al di fuori del conto corrente.

Detto ciò, è innanzi tutto importante sapere che l’accertamento bancario dell’Agenzia delle Entrate costituisce una presunzione legale di tipo relativo.

Che cosa significa?

Ciò significa che è riconosciuta al contribuente la possibilità di dimostrare che – diversamente da quanto ritenuto dall’Agenzia delle Entrate nell’avviso di accertamento – le movimentazioni rilevate sul proprio conto non hanno rilevanza ai fini delle imposte sui redditi. Anche se tale prova contraria è talvolta difficile da produrre (spesso si tratta di molti documenti), il nostro consiglio è quello ti fornire una giustificazione completa di tutte le movimentazioni operate sul conto. Così facendo, si avranno molte più possibilità di dimostrare la correttezza del comportamento fiscalmente adottato.

4. Il Fisco può attribuire alla società i movimenti registrati sui conti correnti dei soci?

Sì. L’Agenzia delle Entrate può attribuire alla società le movimentazioni bancarie registrate sui conti correnti dei relativi soci (se viene dimostrato che sul conto del socio sono transitate delle somme imputabili alla società e da questa non dichiarate).

Tali considerazioni valgono sia per le società di persone sia per le società di capitali a ristretta base azionaria.

5. Accertamento bancario Agenzia delle Entrate: la difesa del contribuente!

Nell’ambito di un accertamento bancario l’Agenzia delle Entrate invita solitamente il contribuente a fornire tutti gli elementi necessari per dimostrare la correttezza del comportamento fiscalmente adottato. Ciò che di norma chiede l’Agenzia delle Entrate ad un contribuente sottoposto a un’indagine finanziaria è la ricostruzione delle movimentazioni finanziarie a lui riconducibili al fine di dimostrare che le stesse non costituiscono redditi sottratti a tassazione.

Questa prassi, è bene precisare, non è obbligatoria: la mancata convocazione del contribuente ai fini del contraddittorio non determina infatti la nullità dell’accertamento bancario (si veda la sentenza della Corte di Cassazione 13 maggio 2003, n. 7329).

A nostro avviso tale soluzione interpretativa penalizza il contribuente. Anche se è possibile dimostrare la correttezza del comportamento fiscalmente adottato nel corso del contenzioso tributario, avere la possibilità per il contribuente di fornire la prova contraria relativa alle movimentazioni oggetto di contestazione nell’ambito di un contraddittorio con l’Ufficio eviterebbe molti dei contenziosi tributari in essere.

Detto ciò, ove per effetto delle indagini bancarie l’Agenzia delle Entrate notifichi al contribuente un avviso di accertamento, quest’ultimo ha comunque la possibilità di presentare un ricorso tributario dinanzi alla Commissione Tributaria territorialmente competente. Nell’ambito del ricorso tributario, sono molteplici gli aspetti che l’avvocato tributarista può sottoporre all’attenzione della Commissione Tributari. I profili di illegittimità che contraddistinguono l’accertamento bancario possono riguardare:

– le soglie elle movimentazioni;

– la motivazione dell’avviso di accertamento;

– l’autorizzazione dell’Ufficio allo svolgimento delle indagini bancarie;

– il presupposto della interposizione fittizia contestata dall’Ufficio;

– la valorizzazione della documentazione prodotta dal contribuente per giustificare le movimentazioni oggetto di contestazione.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Cartelle di pagamento e Covid-19: cosa occorre sapere

Cosa devi fare se hai ricevuto una cartella di pagamento prima della sospensione Covid-19?

Cartelle di pagamento ed emergenza Covid-19.

Le cose che bisogna sapere se (1) hai ricevuto una cartella di pagamento prima dell’8 marzo 2020, se (2) hai aderito alla “Rottamazione ter” e/o al saldo e stralcio.

L’Agenzia delle Entrate-Riscossione è intervenuta con alcune FAQ per chiarire cosa bisogna fare. Ne parliamo qui!

Fino a quando opera la sospensione per i pagamenti e quando devo pagare ciò che devo all’Erario?

Il termine “finale” di sospensione del versamento  di tutte le entrate derivanti da cartelle di pagamento, avvisi di addebito e avvisi di accertamento affidati all’Agente della riscossione è previsto per il 31 dicembre 2020.

Se il contribuente ha ricevuto la notifica di una cartella di pagamento scaduta alla data dell’8 marzo deve effettuare il versamento delle somme dovute entro il 31 gennaio 2021. Gli importi possono essere rateizzati, presentando domanda di rateizzazione sempre 31 gennaio 2021.

Occorre ricordare che nel periodo di sospensione – dall’8 marzo 2020 al 31 dicembre 2020 – l’Agenzia delle Entrate-Riscossione non può effettuare la notifica delle cartelle di pagamento, nemmeno tramite PEC.

Rate in scadenza nel 2020 della “Rottamazione-ter” e del “Saldo e stralcio”: le modifiche del “Decreto Ristori-quater”.

Il “Decreto Ristori-quater” ha prorogato al 1° marzo 2021 il termine di pagamento delle rate in scadenza nell’anno 2020 della “Rottamazione-ter” e del “Saldo e stralcio”, precedentemente fissato al 10 dicembre 2020 dal “Decreto Rilancio”.

Per le rate in scadenza nell’anno2021 e nei successivi anni, restano confermati i termini di pagamento previsti.

Si ricorda che il “Decreto Ristori-quater” non prevede alcun ritardo rispetto al termine del 1°marzo 2021. Se quindi il contribuente procede al pagamento delle rate della ”Rottamazione-ter” e/o del ”Saldo e stralcio” in scadenza nell’anno 2020 successivamente al 1° marzo 2021, lo stesso decade dal beneficio della definizione agevolata e il pagamento sarà acquisito a titolo di acconto sull’intero debito.

Per le rate dell’anno 2021 resta confermato, invece, il ritardo massimo di 5 giorni per il pagamento rispetto alla scadenza della rata, senza incorrere in sanzioni o perdere il beneficio della Definizione agevolata.

Rate della “Rottamazione-ter” e/o del “Saldo e stralcio” scadute il 31 dicembre 2019.

Si rammenta che se il contribuente non ha pagato le rate della “Rottamazione-ter” e/o del “Saldo e stralcio” in scadenza entro il 31 dicembre 2019 decade dalla definizione agevolata. In tal caso è possibile chiedere la rateizzazione del debito oggetto di “Rottamazione-ter” o di “Saldo e stralcio” per i quali il contribuente ha perso il beneficio della definizione agevolata.

Piano di rateizzazione in corso: scadenza delle rate durante il periodo di sospensione.

Il pagamento delle rate in scadenza è sospeso dall’8 marzo al 31 dicembre 2020: tali rate devono essere versate comunque entro il 31 gennaio 2021.

È possibile chiedere la rateizzazione all’Agenzia delle entrate-Riscossione durante il periodo di sospensione?

L’operatività di Agenzia delle Entrate-Riscossione prosegue anche nel periodo di sospensione, trattando le istanze e inviando i previsti riscontri.

Il “Decreto Ristori-quater” introduce delle agevolazioni per la presentazione delle richieste di rateizzazione?

Sì. Per le richieste di rateizzazione presentate a decorrere dalla data di entrata in vigore del “Decreto Ristori-quater” (30 novembre 2020) e fino al 31 dicembre 2021, la temporanea situazione di obiettiva difficoltà deve essere documentata, ai fini della relativa concessione, solo nel caso in cui il debito complessivo oggetto di rateizzazione sia di importo superiore a 100 mila euro, in deroga alla soglia di 60 mila prevista dall’art. 19, comma 1 ultimo periodo, del DPR n. 602/1973.

Cosa succede alle eventuali procedure esecutive in essere prima della data di presentazione dell’istanza di rateizzazione, in caso di accoglimento dello stessa? Vengono automaticamente revocate?

Per i provvedimenti di accoglimento relativi a richieste di rateizzazione presentate dalla data di entrata in vigore del “Decreto Ristori-quater” (30 novembre 2020), l’estinzione delle procedure esecutive precedentemente avviate si determina con il pagamento della prima rata del piano di rateizzazione (a condizione che non si sia ancora tenuto l’incanto con esito positivo o non sia stata presentata istanza di assegnazione, ovvero il terzo non abbia reso dichiarazione positiva o non sia stato già emesso provvedimento di assegnazione dei crediti pignorati).

Cosa succede se ho ricevuto un preavviso di fermo del mio veicolo o un preavviso di ipoteca a fine febbraio2020, che avrei dovuto pagare entro i successivi 30 giorni?

L’Agenzia delle Entrate-Riscossione– dall’8 marzo al 31 dicembre 2020 – non procederà all’iscrizione di fermi amministrativo alle iscrizioni di ipoteche, essendo sospese le azioni di recupero, cautelari ed esecutive, dei carichi ad essa affidati. Lo stesso dicasi ove il contribuente abbia ha una cartella scaduta all’8 marzo 2020.

Cosa succede se ho un fermo amministrativo già iscritto per una vecchia cartella? Come posso risolvere la situazione?

In tal caso, il contribuente può pagare integralmente il debito oggetto di fermo amministrativo oppure chiedere un piano di rateizzazione del debito. In tal caso, pagando la prima rata si ottiene la sospensione del provvedimento.

Se ho subito un pignoramento dello stipendio prima dell’entrata in vigore del Decreto n. 34/2020 il datore di lavoro è obbligato a effettuare la trattenuta durante il periodo di sospensione?

Gli obblighi derivanti dai pignoramenti presso terzi, effettuati dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione prima della data di entrata in vigore del Decreto n. 34/2020, se relativi a somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego nonché a titolo di pensione e trattamenti assimilati, sono sospesi fino al 31 dicembre 2020.

Se ho una cartella di pagamento scaduta di importo superiore a 5.000 mila euro e devo ricevere il pagamento di una prestazione professionale da parte di una Pubblica Amministrazione, il pagamento verrà bloccato?

No. Nel periodo di sospensionedall’8 marzo al 31 dicembre 2020 le Pubbliche Amministrazioni non devono verificare la presenza di debiti non ancora pagati all’Agenzia delle Entrate-Riscossione, risultando prive di qualsiasi effetto le verifiche eventualmente già effettuate, anche prima dell’inizio della sospensione, che hanno fatto emergere una situazione di inadempienza (per le quali non è stato ancora notificato l’atto di pignoramento).

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Autotutela tributaria: a cosa serve e come funziona!

L’autotutela tributaria: un valido strumento ai fini dell’annullamento dell’avviso di accertamento!

L’obiettivo di questo articolo è delineare la funzione del potere di autotutela tributaria nell’ambito del procedimento di accertamento tributario.

L’esercizio del potere di autotutela nel diritto tributario non vive di luce propria. Si tratta di un istituto la cui disciplina prende spunto da altri rami del diritto (dal diritto Amministrativo in particolare): si è soliti parlare infatti di autotutela amministrativa. Dei consigli utili su come predisporre un’istanza di autotutela si trovano sul sito dell’Agenzia delle Entrate a questo link.

1. L’istanza di autotutela tributaria: a cosa serve?

L’istituto dell’autotutela tributaria – cui il contribuente accede mediante la presentazione di un’apposita istanza – ha come obiettivo l’annullamento di un avviso di accertamento emanato dall’Agenzia delle Entrate.

La richiesta di annullamento in autotutela è utile quando l’atto fiscale – emesso dall’Agenzia delle Entrate o dall’Agenzia delle Entrate Riscossione (ex Equitalia) – presenta evidenti errori. In tal caso, la presentazione di un’istanza di annullamento in autotutela consente al contribuente di risolvere rapidamente la problematica con l’Agenzia delle Entrate. Se l’istanza è fondata e l’Ufficio annulla l’atto, non è infatti necessario presentare un ricorso alla Commissione Tributaria.

L’Agenzia delle Entrate può esercitare il potere di autotutela sia in pendenza dei termini per la redazione del ricorso tributario sia in presenza di un avviso di accertamento divenuto definitivo. In alcuni casi, anche se sono decorsi i termini per la presentazione del ricorso, l’Agenzia delle Entrate se ritiene sussistano delle fondate ragioni può annullare i propri atti. Il potere di annullamento in autotutela ha infatti come obiettivo interesse pubblico.

Guarda qui il nostro video.

2. L’autotutela tributaria e termini del ricorso tributario: 2 aspetti fondamentali da considerare.

Dopo aver spiegato a cosa serve la presentazione di un’istanza di autotutela tributaria, occorre considerare due aspetti fondamentali.

Il primo. La presentazione di un’istanza di autotutela fiscale non interrompe la decorrenza dei termini per la presentazione del ricorso!

Il secondo. L’istanza di autotutela fiscale può essere presentata a partire dal momento in cui si riceve un accertamento fiscale. Ad esempio, può essere presentata anche dopo la proposizione del ricorso tributario.

3. Chi può esercitare il potere di autotutela?

Il potere di annullamento in autotutela può essere esclusivamente esercitato dall’Ufficio dell’Amministrazione Finanziaria (Agenzia delle Entrate o Agenzia delle Entrate Riscossione) o del Comune (per i tributi locali) che ha emanato l’atto. Solo in relazione agli atti fiscali emanati dall’Agenzia delle Entrate, nelle ipotesi di grave inerzia dell’ufficio l’esercizio del potere di autotutela può essere esercitato dalla Direzione Regionale delle Entrate.

Il riesame dell’ atto e il conseguente esercizio dell’ autotutela può avvenire sia d’ufficio sia su istanza di parte “nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione” (cfr. l’articolo 2 del Dm n. 37 del 1997).

4. In relazione a quali atti può essere presentata un’istanza di autotutela tributaria?

L’istanza di annullamento in autotutela può essere presentata avverso tutti gli atti indicati nell’articolo 19 del decreto legislativo n. 546 del 1992. Si tratta in particolare:

  • dell’avviso di accertamento del tributo;
  • dell’avviso di liquidazione del tributo;
  • del provvedimento che irroga le sanzioni;
  • del ruolo e della cartella di pagamento;
  • dell’avviso di mora;
  • dell’iscrizione di ipoteca sugli immobili;
  • del fermo amministrativo;
  • degli atti relativi alle operazioni catastali;
  • del rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie e d’interessi o altri accessori non dovuti;
  • del diniego o della revoca o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;
  • di ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie.

5. Per quali motivi può essere presentata un’istanza di autotutela tributaria?

Può essere utile presentare istanza di autotutela tributaria quando l’infondatezza dell’atto fiscale derivi:

  • dalle norme applicate dall’Ufficio (si pensi, ad esempio, a un costo palesemente deducibile sulla base del principio di inerenza, che invece viene negata dall’Ufficio);
  • da un errore di persona (si pensi, ad esempio, ad un avviso di accertamento notificato al soggetto A in luogo del soggetto B);
  • da un errore di calcolo (si pensi a un avviso di accertamento che richiede un’imposta palesemente errata);
  • da un errore sul presupposto dell’imposta (si pensi al caso in cui l’imposta viene applicata in assenza del presupposto dell’imposta);
  • dalla mancata valutazione dei pagamenti eseguiti dal contribuente (si pensi a un contribuente che  a seguito del mancato pagamento delle imposte ha regolarizzato la sua posizione mediante il ravvedimento operoso, ma l’Ufficio non ne ha tenuto conto);
  • dalla mancata valutazione da parte dell’Ufficio della sussistenza dei requisiti per fruire di determinati regimi applicati;
  • da un errore del contribuente.

6. A chi indirizzare l’istanza di autotutela tributaria?

La richiesta del contribuente deve essere presentata direttamente all’Ufficio che ha emesso l’atto. In alternativa, l’istanza di autotutela tributaria può essere spedita a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno. È altresì possibile notificare l’istanza mediante PEC.

Se hai ricevuto la notifica una cartella di pagamento (o di un atto della riscossione) e vuoi presentare un’istanza di autotutela fiscale: è necessario indirizzare la richiesta all’Agenzia delle Entrate– Riscossione (Ex Equitalia).

Se hai ricevuto la notifica di un avviso di accertamento e intendi presentare un’istanza di autotutela fiscale: è necessario indirizzare la richiesta all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate.

Se il contribuente ha ricevuto un avviso di accertamento in relazione a tributi locali e intendi presentare un’istanza di autotutela fiscale: è necessario indirizzare la richiesta all’Ufficio Tributi del Comune che ha emesso l’atto.

7. Quali elementi devono essere riportati nell’istanza di autotutela tributaria?

L’istanza di autotutela tributaria da parte del contribuente deve indicare al suo interno alcuni elementi essenziali.

In particolare, l’istanza deve riportare:

– l’ufficio cui è rivolta l’istanza;

– il nome del contribuente e del soggetto delegato;

– l’atto di cui viene chiesto l’annullamento in autotutela;

– i motivi per cui si ritiene illegittimo e quindi annullabile l’atto. Tali motivazioni, per potere essere valutate dall’Ufficio, devono essere giustificate da documenti. La mancanza di documentazione successivamente sanata non oltre  termini di decadenza potrebbe pregiudicare l’esito dell’istanza.

8. L’istanza di autotutela tributaria: possibili esiti

L’Ufficio – una volta esaminata l’istanza di annullamento in autotutela e i documenti forniti dal contribuente – può comunicare la propria decisione. L’Ufficio può in particolare comunicare l’accoglimento o il rigetto della richiesta di autotutela tributaria presentata.

Occorre al riguardo evidenziare che la legge non prevede però dei termini per l’esercizio del potere di autotutela. Gli uffici dell’Agenzia delle Entrate non hanno un obbligo di fornire una risposta sul buon andamento dell’istanza di autotutela presentata dal contribuente o sull’esercizio del potere di autotutela.

Se quindi il contribuente non riceve una risposta (entro il termine di 60 giorni previsto per l’impugnazione dell’atto) deve presentare un ricorso tributario, al fine di evitare che la pretesa impositiva diventi a tutti gli effetti definitiva. È importante infatti notare che la presentazione dell’istanza di autotutela non interrompe infatti i termini utili per la proposizione del ricorso tributario alla Commissione tributaria competente.

L’atto fiscale resta quindi valido in assenza di un espresso annullamento.

Ove l’accoglimento dell’istanza di autotutela fiscale da parte dell’Ufficio pervenga dopo aver presentato il ricorso, non vi sarà alcun aspetto problematico per il contribuente. Ove l’avviso di accertamento impugnato venga annullato in autotutela, il contribuente e l’Ufficio dovranno presentare una domanda per cessata la materia del contendere.

In questo caso, quando il contribuente ottiene l’annullamento dell’atto fiscale ha diritto di ottenere il rimborso delle somme già versate a titolo di riscossione provvisoria.

9. Il diniego di autotutela è impugnabile?

Il diniego di autotutela è l’atto con cui l’Amministrazione Finanziaria manifesta in maniera esplicita il rifiuto ad annullare un atto impositivo non necessariamente divenuto definitivo. In particolare, il diniego di autotutela è un atto con cui l’Amministrazione Finanziaria esprime il proprio potere discrezionale.

Il diniego di autotutela è impugnabile dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale?

Molto importanti appaiono al riguardo le conclusioni cui è pervenuta la Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 21146 del 2018. In tale ordinanza la Corte di Cassazione ha evidenziato che, nel processo tributario, possono essere eccepiti soltanto profili di illegittimità del diniego di autotutela che afferiscano a questioni di interesse generale.

Tali principi sono stati di recente ribadite dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 24032 del 2019. La Corte di Cassazione, nella sentenza in oggetto, ha chiarito che il sindacato della Commissione Tributaria sul diniego di annullamento in autotutela è consentito solo ove si renda necessario l’accertamento della ricorrenza delle ragioni di interesse generale dell’Amministrazione Finanziaria.

In conclusione, avverso il diniego di autotutela può essere presentato ricorso tributario solo per eccepire profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione Finanziaria legati a questioni di interesse generale.

Il ricorso tributario avverso il diniego di autotutela non può essere invece presentato per contestare nel merito la richiesta delle maggiori imposte da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Come evidenziato, il diniego di autotutela esprime il potere discrezionale dell’Amministrazione Finanziaria e per tale ragione non è possibile proporre un ricorso tributario in Commissione Tributaria che contesti tale potere.

10. Che cos’è l’autotutela sostitutiva?

Abbiamo fino ad ora parlato dell’autotutela tributaria esercitata dall’Ufficio a seguito di un’apposita istanza presentata dal contribuente.

Occorre tuttavia al riguardo evidenziare che l’esercizio del potere di autotutela da parte degli Uffici dell’Amministrazione Finanziaria non è necessariamente correlato alla presentazione di un’istanza da parte del contribuente.

Se l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate è viziato da una causa di nullità o di illegittimità, l’Ufficio – se non è decorso il termine di decadenza previsto per l’esercizio del potere impositivo – può infatti annullare l’atto ed emetterne uno nuovo, che sostituisce il precedente.

La riforma dell’atto impositivo originario può essere estesa a tutti gli elementi strutturali dell’atto, come precisato dal costante orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione.

E’ importante notare che l’esercizio del potere di annullamento in autotutela da parte dell’Ufficio ha un effetto retroattivo. Ciò significa che nel caso in cui sia stato instaurato un contenzioso tributario avverso l’originario atto impositivo, il giudice dovrà dichiarare l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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La notifica dell’avviso di accertamento: possibili scenari!

L’obiettivo di questo articolo è quello di delineare le diverse strade che il contribuente può perseguire quando riceve la notific dell’ avviso di accertamento.

1. La notifica dell’avviso di accertamento: iter processuale

La prima cosa che occorre sapere quando si riceve una notifica dell’avviso di accertamento è che il contribuente – qualora decida di contrastare la pretesa dell’Agenzia delle Entrate – può presentare ricorso entro 60 giorni dalla notifica dell’atto. Una volta notificato il ricorso, il difensore del contribuente deve a pena di inammissibilità procedere con il deposito telematico del ricorso stesso entro 30 giorni a decorrere dalla notifica.

Prima dell’udienza fissata per la discussione del merito, è possibile depositare delle memorie con documenti (20 giorni prima dell’udienza di merito) ovvero depositare delle memorie illustrative (10 giorni liberi prima).

Qualora il contribuente ottenga una sentenza sfavorevole in primo grado, è necessario proporre appello entro sei mesi dalla data di deposito della sentenza presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale.

È importante notare che ove la scadenza del termine per proporre appello intercorra durante il mese di agosto, si applica la cosiddetta sospensione feriale. Sarà quindi necessario aggiungere ai predetti sei mesi i 31 giorni di agosto.  Si pensi a una sentenza depositata in Commissione Tributaria Provinciale il 16 luglio 2020. La scadenza dell’appello è il 16 febbraio 2021 (6 mesi fino al 16 gennaio 2020 + i 31 giorni di agosto).Tali tempistiche non si applicano ove l’Agenzia delle Entrate proceda con la notifica al contribuente della sentenza. In tal caso il termine per l’impugnazione è di 60 giorni dalla notifica della sentenza. Le stesse considerazioni valgono chiaramente per l’Agenzia delle Entrate, nel caso in cui il contribuente ottenga invece una sentenza favorevole in primo grado.

Le stesse considerazioni valgono per le sentenze di secondo grado. Se si è avuta una sentenza sfavorevole in secondo grado, si può proporre ricorso per Cassazione entro sei mesi dalla data di deposito della sentenza presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale. Se la sentenza è stata notificata dalla controparte, il termine per l’impugnazione è di 60 giorni.

2. Le spese da affrontare qualora il contribuente decida di litigare con il Fisco

Al fine di poter instaurare un contenzioso tributario con l’Agenzia delle Entrate è necessario provvedere al pagamento del contributo unificato. L’importo del contributo unificato è determinato sulla base dei valori che seguono:

  • 30,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 0 e 2582,28 euro;
  • 60,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 2582,29 e 5.000,00 euro;
  • 120,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 5.000,01 e 25.000,0 euro;
  • 250,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 25.000,01 e 75.000,01 euro;
  • 500,00 euro, per controversie aventi un valore compreso tra 75.000,01 e 200.000,00 euro;
  • 1.500,00 euro, per controversie aventi un valore da 200.000,01 euro in su.

Occorre sottolineare che il contributo unificato tributario è dovuto per ogni grado di giudizio da parte del soggetto che intende instaurare la lite. Se, ad esempio, il contribuente ha avuto un esito positivo in primo grado, lo stesso non avrà necessità di appellare la sentenza e conseguentemente non dovrà versare il contributo unificato.

3. Posso proporre autonomamente ricorso

È importante notare che in alcuni casi residuali (per le controversie di valore fino a 3.000 euro), il contribuente può instaurare il giudizio anche senza assistenza tecnica. In tal caso la notifica del ricorso può avvenire anche tramite:

  • ufficiale giudiziario;
  • consegna diretta alla Direzione Regionale dell’Agenzia, che rilascia la relativa ricevuta;
  • spedizione con plico raccomandato senza busta con ricevuta di ritorno.

4. Cosa posso fare se non voglio proporre ricorso contro l’Agenzia delle Entrate? Posso raggiungere un accordo?

È possibile raggiungere un accordo con l’Agenzia delle Entrate nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione.

L’accertamento con adesione – la cui iniziativa è demandata al contribuente mediante la presentazione di una semplice istanza – consente al contribuente di pervenire ad un accordo con l’Agenzia delle Entrate in merito alle imposte dovute, evitando l’insorgenza di una lite tributaria.

Si tratta, in particolare, di un accordo tra contribuente e ufficio che può essere raggiunto sia prima dell’emissione di un avviso di accertamento, che dopo. È importante evidenziare che un accordo con l’Ufficio nell’ambito dell’accertamento con adesione postula che il contribuente non presenti ricorso davanti al giudice tributario.

La procedura riguarda tutte le più importanti imposte dirette e indirette e può essere attivata tanto dal contribuente quanto dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate.

Chi può usufruire dell’accertamento con adesione? Sono ammessi tutti i contribuenti.

Quando si propone un’istanza di accertamento con adesione? Può presentarsi:

  • dopo aver ricevuto un avviso di accertamento;
  • dopo un controllo eseguito dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza (accesso, ispezione, verifica).

Per quali imposte può pervenirsi ad un accordo con l’Ufficio nell’ambito del procedimento di adesione? Possono essere definite le principali imposte dirette (irpef, ires, irap) e le principali imposte indirette (Iva, Imposta sulle successioni e sulle donazioni, imposta di registro, imposta ipotecaria e catastale, invim, imposta sostitutiva dell’Invim, imposta sostitutiva sulle operazioni di credito, imposta erariale di trascrizione e addizionale regionale all’imposta erariale di trascrizione, imposta provinciale sull’immatricolazione di nuovi veicoli) .

Quali sono i vantaggi di concludere un accordo con l’Ufficio nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione?

Qualora il procedimento di accertamento con adesione si risolva positivamente con l’Agenzia delle Entrate e si pervenga a un accordo in merito alla riduzione dell’imposta accertata, le sanzioni trovano applicazione in misura pari a 1/3 rispetto a quelle dovute.

Occorre altresì considerare che per le contestazioni che hanno anche una rilevanza penale, il perfezionamento dell’adesione con il pagamento delle somme dovute prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado costituisce una una circostanza attenuante. In tal caso, le eventuali sanzioni penali si riducono fino a un terzo e le sanzioni accessorie non vengono applicate.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni compila il form.

Le opposizioni alle cartelle esattoriali in materia di previdenza

L’obiettivo di questo articolo è quello di delineare le diverse strade che il contribuente può perseguire quando riceve la notifica di una una cartella di pagamento attinente a crediti dell’INPS da parte di Equitalia Servizi Riscossione SpA/Agenzia delle Entrate Riscossione.

1. L’iter processuale: tipologia di opposizioni alle cartelle esattoriali in materia di previdenza e lavoro

Per contestare una cartella di pagamento contenente un credito INPS occorre presentare ricorso, generalmente entro 40 giorni dalla notifica dell’atto stesso, innanzi al Tribunale – Sezione Lavoro, territorialmente competente. 

a) opposizioni alle cartelle esattoriali ai sensi della legge 24 novembre 1981 n. 689
Detto rimedio è esperibile nell’ipotesi in cui la cartella esattoriale, o l’avviso di messa in mora, è emessa senza essere preceduta dalla notifica dell’ordinanza/ingiunzione o del verbale di accertamento di violazione, onde consentire all’interessato di “recuperare” l’esercizio del mezzo di tutela previsto appunto da detta legge riguardo agli atti sanzionatori; ciò avviene, in particolare, allorché l’opponente contesti il contenuto del verbale che è da lui conosciuto per la prima volta al momento della notifica della cartella. È possibile, impugnare la cartella per prescrizione – quinquennale – del credito INPS.

b) opposizione all’esecuzione avverso la cartella di pagamento o l’avviso di mora ovvero atti esecutivi o cautelari (pignoramenti, iscrizioni ipotecarie, fermi amministrativi)
Si verifica allorché si contesti la legittimità dell’esecuzione per omessa notifica della cartella stessa e quindi per la mancanza di un titolo legittimante l’iscrizione al ruolo, o si adducono fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, come, ad esempio, la prescrizione maturata dopo la notifica della cartella ovvero l’intervenuto pagamento del tributo etc.

c) opposizione agli atti esecutivi
Detto tipo di opposizione è esperibile nel caso in cui si contesti da parte dell’interessato la ritualità formale della cartella esattoriale o si adducano vizi di forma del procedimento di esecuzione esattoriale, compresi i vizi strettamente attinenti alla notifica della cartella o quelli riguardanti i successivi avvisi di mora.

Qualora il contribuente ottenga una sentenza sfavorevole in primo grado è possibile proporre appello entro sei mesi dalla data di deposito della sentenza, depositando ricorso presso la Corte d’appello del circondario del Tribunale che ha pronunciato il provvedimento impugnato.

Si pensi a una sentenza depositata il 16 luglio 2020. La scadenza dell’appello è il 16 gennaio 2021 (6 mesi fino al 16 gennaio 2020).

Tali termini non si applicano ove l’Agenzia delle Entrate Riscossione abbia notificato la sentenza al procuratore domiciliatario (cioè, all’avvocato) del contribuente. In tal caso il termine per l’impugnazione è di 30 giorni dalla notifica della sentenza. Le stesse considerazioni valgono chiaramente per l’Agenzia delle Entrate Riscossione, nel caso in cui il contribuente ottenga invece una sentenza favorevole in primo grado.

È importante notare che ove la scadenza del termine per proporre appello intercorra durante il mese di agosto, non si applica la cosiddetta sospensione feriale, in quanto siamo di fronte al c.d. Rito Lavoro, che non prevede detta sospensione. 

Le stesse considerazioni valgono per le sentenze di secondo grado. Se si è avuta una sentenza sfavorevole in secondo grado, si può proporre ricorso per Cassazione entro sei mesi dalla data di deposito della sentenza presso la cancelleria della Corte di Appello ovvero 60 giorni dalla notificazione della sentenza al procuratore della parte.

2. Le spese da affrontare in caso di opposizioni alle cartelle esattoriali

Al fine di poter instaurare un contenzioso tributario con l’Agenzia delle Entrate è necessario provvedere al pagamento del contributo unificato. 

L’articolo 9 Decreto Presidente della Repubblica 30 maggio 2002 n. 115 al co. 1-bis prevede che “nei processi per controversie di previdenza ed assistenza obbligatorie, nonché’ per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego le parti che sono titolari di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima Dichiarazione, superiore a tre volte l’importo previsto dall’articolo 76, sono soggette, rispettivamente, al contributo unificato di iscrizione a ruolo nella misura di cui all’articolo 13, comma 1, lettera a), e comma 3, salvo che per i processi dinanzi alla Corte di cassazione in cui il contributo è dovuto nella misura di cui all’articolo 13, comma 1”. Tale limite è attualmente pari a € 34.481,46.

L’importo del contributo unificato è determinato sulla base dei valori che seguono:

1° Grado

  • Valore fino a € 1.100,00, Contributo € 43,00 (ridotto al 50%)*
  • Valore superiore a € 1.100,00 e fino a € 5.200,00, Contributo € 98,00 (ridotto al 50%)*
  • Valore superiore a € 5.200,00 e fino a € 26.000,00, Contributo € 237,00 (ridotto al 50%)*
  • Valore superiore a € 26.000,00 e fino a € 52.000,00, Contributo € 518,00 (ridotto al 50%)*
  • Valore superiore a € 52.000,00 e fino a € 260.000,00, Contributo € 759,00 (ridotto al 50%)*
  • Valore superiore a € 260.000,00 e fino a € 520.000,00, Contributo € 1.214,00 (ridotto al 50%)*
  • Valore superiore a € 520.000,00, Contributo € 1.686,00 (ridotto al 50%)*

* Ai sensi dell’articolo 13 punto 3 DPR 115/02 nelle controversie individuali di lavoro o concernenti rapporti di pubblico impiego, salvo quanto disposto dall’articolo 9, comma 1-bis, il contributo unificato è ridotto alla metà”.

Occorre sottolineare che il contributo unificato tributario è dovuto per ogni grado di giudizio da parte del soggetto che intende instaurare la lite. Se, ad esempio, il contribuente ha avuto un esito positivo in primo grado, lo stesso non avrà necessità di appellare la sentenza e conseguentemente non dovrà versare il contributo unificato. 

3. Posso proporre da solo il ricorso?

Non è possibile proporre autonomamente il ricorso innanzi al Tribunale, essendo di contro obbligatoria la difesa tecnica con un avvocato.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni compila il form