Mese: Settembre 2022

Pignoramento presso terzi dell’Agenzia delle Entrate Riscossione

Il pignoramento presso terzi è uno strumento che l’Agenzia delle Entrate Riscossione utilizza per agire nei confronti di chi non paga le imposte richieste mediante cartelle esattoriali.

Come può agire l’Agenzia delle Entrate per effettuare il pignoramento?

L’Agenzia delle Entrate può utilizzare il pignoramento diretto dello stipendio, della pensione o del conto corrente senza l’obbligo di avvisarti.

Potrebbe accadere che tu venga informato dal Direttore della banca sul fatto che alcune somme siano state bloccate proprio a causa del pignoramento o che sia il datore di lavoro ad avvisarti che parte del tuo stipendio sia stato pignorato dal Fisco.

Quali sono gli aspetti da tenere in considerazione?

Il primo elemento da considerare è l’assenza di un procedimento giudiziale.

Se si verifica questo evento, nonè necessaria che l’Agenzia delle Entrate venga autorizzata dal giudice per l’assegnazione al creditore delle somme pignorate. In questo caso è direttamente il Fisco che ordina al terzo, sia banca o datore di lavoro, la corrispondenza della somma dovuta.

Bisogna inoltre porre attenzione ai crediti derivanti dal lavoro per cui sono previsti dei limiti al loro pignoramento, in particolare modo per lo stipendio che può essere decurtato solo nel rispetto di determinati limiti:

·       1/10 per importi fino a 2500 euro

·       1/7 per importi superiori a 2500 euro e nonsuperiori ai 5000 euro

·       1/5 per importi superiori a 5000 euro

In questi casi è bene considerare anche l’indicazione esatta del dettaglio dei crediti.

La stessa Corte di Cassazione, infatti, ha stabilito che il pignoramento presso terzi dell’Agenzia delle Entrate è nullo se non è indicato il dettaglio dei crediti.

Clicca qui e guarda il nostro video.

È possibile presentare ricorso?

Contro questa forma di pignoramento è possibile presentare il ricorso, ma deve avvenire entro 20 giorni dalla data di notifica dell’atto al terzo.

Molti imprenditori si sono rivolti a Noi per risolvere in via definitiva il loro debito fiscale.

Il pignoramento presso terzi del Fisco può provocarti danni notevoli: non perdere tempo!

Se anche tu hai ricevuto un pignoramento e vuoi risolvere definitivamente, annullando o riducendo in modo consistente il debito tributario, contattaci compilando il form che trovi in fondo a questa pagina.

Trasferimento all’estero: ricordati di iscriverti all’AIRE!

Trasferimento all’estero? Non dimenticarti di iscriverti all’AIRE!

Trasferimento all’estero? Cosa succede se una persona che ha la residenza fiscale in Italia si dimentica di iscriversi all’AIRE? (Anagrafe degli italiani all’estero)

Per il Fisco italiano sei sempre residente in Italia e quindi devi pagare le tasse al Paese.

Chi è fiscalmente residente in Italia?

Sei residente in Italia se per la maggior parte del periodo di imposta sei iscritto nell’anagrafe della popolazione residente, se hai il domicilio ai sensi del codice civile nel territorio dello Stato e hai la residenza ai sensi del Codice Civile nel territorio dello Stato.

Queste casistiche sono alternative, ciò significa che una persona ha la residenza fiscale in Italia solo se soddisfa una delle tre condizioni.

E se nel trasferimento all’estero dimentichi l’iscrizioneall’AIRE?

Per spiegare meglio cosa potrebbe succedere ti faccio un esempio di un caso che abbiamo seguito.

Mario si reca all’estero e si dimenticadi iscriversi all’AIRE.

Il Fisco gli invia un invito a comparire con cui gli chiede le tasse in Italia.

Il cittadino risulta residente fiscalmente in due Stati: in Italia in quando non ha provveduto alla cancellazione all’anagrafe e in Inghilterra dove percepisce un reddito.

Link al video

Come si procede di solito?

Il paragrafo 2 dell’articolo 4 della Convenzione Contro Doppie Imposizioni tra Italia e Regno Unitoafferma che: “Quando (…) Una persona fisica è considerata residente dientrambi gli Stato contraenti (…) Detta persona è considerata residente dello Stato contraente nel quale dispone di un’abitazione permanente“, ovvero nel quale la persona coltiva il centro degli interessi vitali.

Quando una persona fisica èconsiderata residente in entrambi gli Stati contraenti, la sua situazione puòessere determinata secondo differenti modalità.

Quanto la persona dispone di un’abitazione permanente in ciascuno degli Stati contraenti, è considerata residente nello Stato contraente centro degli interessi vitali, ovvero dove possiede relazioni sociali ed economiche.

Nel caso in cui non si può determinare lo Stato contraente nel quale detta persona ha il centro dei suoi interessi vitali e non possiede un’abitazione stabile in nessuno dei due Stati, è considerato residente dello Stato contraente in cui soggiorno abitualmente.

Esiste anche il caso in cui una persona soggiorni abitualmente in entrambi gli Stati contraenti o non soggiorni in nessuno di essi; in questa ipotesi il cittadino è considerato residente dello Stato contraente del quale ha la nazionalità.

Ultima possibilità che può verificarsi è quella in cui la persona ha la nazionalità di entrambi gli Stati contraenti o non ha la nazionalità in alcuno di questi: in tale situazione saranno le autorità degli Stati coinvolti a risolvere la questione di comune accordo.

4. E nel caso di Mario?

Sulla base della normativa convenzionale, abbiamo appurato che Mario disponeva di un’abitazione permanente in UK, centro dei suoi interessi vitali: l’Ufficio, fortunatamente, non gli ha inviato l’accertamento.

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Antieconomicità: hai ricevuto un avviso di accertamento?

Se il Fisco rileva l’antieconomicità in una condotta imprenditoriale come procede?

Può fare il ricalcolo del reddito imponibile del contribuente attraverso un accertamento induttivo, cioè basato su presunzioni e senza la necessità di dover fornire prove che evidenzino un’evasione d’imposta certa.

Cosa significa comportamento ANTIECONOMICO?

Un comportamento antieconomico è caratterizzato da una mancanza di congruità non giustificata rispetto all’attività dell’impresa.

Il Fisco è molto attento a questo tipo di fenomeni e definisce un comportamento tale se l’imprenditore agisce mettendo in atto una o più delle seguenti condizioni:

·       Sostiene delle spese eccessive per beni devolvibili alla cliente la in modo gratuito

·       Ricorre a finanziamenti molto elevati da cui derivano perdite ingenti

·       Applica delle percentuali di ricarico inferiori rispetto a quelli della media del settore

·       manifesta perdite rilevanti per quattro esercizi consecutivi

·       Presenta un elevato costo del lavoro progressivamenteaumentato in modo inversamente proporzionale al trend degli utili

·       Presenta utili di esercizio irrisori per cinque annualità consecutive accompagnati ad un ricarico sulle vendite pari ad un quinto di quello applicato di norma

·       Un’evidente sproporzione tra risultato economico dell’impresa e il costo dei fattori produttivi

Cosa fa l’Agenzia delle Entrate in questi casi?

In questi casi l’Agenzia delle Entrate notifica un avviso di accertamento con cui nega la deducibilità fiscale di quelle spese giudicate contrarie alla logica imprenditoriale e ricostruisce il reddito imponibile sulla base di presunzioni.

Clicca qui e guarda questo video sul nostro canale youtube.

Come puoi provare che la tua condotta non è antieconomica?

In questo caso il tuo dovere è provare le ragioni del comportamento antieconomico della tua impresa. È fondamentale, inoltre, che tu tenga traccia delle ragioni che ti hanno spinto a compiere tali scelte che in apparenza non appaiono riconducibili ad una logica economica.

In tale situazione, infatti, le scritture contabili non solo non sono utili.

ma sono considerate poco attendibili in quanto contrastano con i criteri di ragionevolezza e logicità imprenditoriale proprio a causa della condotta antieconomica del contribuente.

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Avviso di liquidazione: come risolvere!

L’avviso di liquidazione: ti spieghiamo cos’è e come puoi risolverlo!

Hai ricevuto un avviso di liquidazione da parte dell’Agenzia delle Entrate e vuoi saperne di più?

Ecco quello che ti serve sapere!

Cos’è l’avviso di liquidazione?

L’avviso di liquidazione è l’atto con cui l’Agenzia delle Entrate rende noto al contribuente quali sono le imposte da pagare a seguito del controllo effettuato sulle dichiarazioni oppure sugli atti tassati ai fini dell’imposta di registro oppure ai fini dell’imposta sulle donazioni e successioni.

È un atto che viene utilizzato inparticolare nell’ambito dei controlli fiscali sulle imposte indirette: impostadi registro, imposta sulle donazioni e successioni e imposte ipotecaria ecatastale.

Se vuoi contestare la liquidazione dell’imposta effettuata dall’Agenzia delle Entrate, potrai farlo!

Te lo spiego più avanti, continua a leggere!

Come avviene la liquidazione delle imposte da parte dell’Agenzia delle Entrate?

L’Agenzia delle Entrate effettua il controllo sulla base dei dati e degli elementi che la stessa desume direttamente dalle dichiarazioni che hai presentato (nel caso di imposta sulle successioni e donazioni) e che desume dagli atti (giudiziari oppure dagli attidi compravendita di immobili, ad esempio) che vengono registrati (ai fini dell’imposta di registro e delle imposte ipotecarie e catastali).

Anche se l’avviso di liquidazione rappresenta un atto con cui si effettua un controllo sulla liquidazione dell’imposta, appunto, devi sapere che l’Agenzia delle Entrate ha comunque un obbligo di motivare in modo preciso la richiesta fatta con questo atto.

Ove ciò non avvenga, l’atto di liquidazione può essere annullato dal giudice.

Avviso di liquidazione Agenzia delle Entrate: come gestire la richiesta del Fisco.

Ci sono 3 modi per gestire erisolvere la notifica di un avviso di liquidazione.

Soluzione n. 1 – Acquiescenza

Se hai torto, se quindi la richiesta da parte dell’Agenzia delle Entrate è corretta, se puoi permettertelo, puoi decidere di pagare quanto richiesto dall’Agenzia delleEntrate entro il termine di 60 giorni.

Ricorda. Se non paghi entroquesto termine, le somme richieste verranno iscritte a ruolo e inserite dentrouna cartella di pagamento, con l’aggiunta di sanzioni.

Soluzione n. 2 – L’autotutela tributaria

Il secondo modo con cui puoi risolvere invece è contestare direttamente l’avviso di liquidazione mediante un’autotutela tributaria. È una semplice richiesta che puoi presentare autonomamente all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto concui richiedi l’annullamento o la correzione dello stesso.

Soluzione n. 3 – Il ricorso tributario

La terza soluzione che puoi attuare è presentare un ricorso tributario in Commissione Tributaria Provinciale nominando un difensore. Ricorda, però, che hai 60 giorni di tempo per presentare ricorso. Non deciderti, quindi, all’ultimo minuto.

A chi devi rivolgerti per risolverela notifica di un avviso di liquidazione?

Per gestire e risolvere sin dasubito la richiesta di maggiori imposte, fatta dall’Agenzia delle Entratemediante l’avviso di liquidazione, devi rivolgerti alle figure competenti. Sitratta:

– dell’avvocato tributarista;

– del dottore commercialista.

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Avviso di accertamento: la guida definitiva per imprenditori!

Sei un imprenditore che ha ricevuto la notifica di un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate e vuoi saperne di più?

Allora sei nel posto giusto!

Avviso di accertamento: che cos’è?

L’avviso di accertamento è quell’atto con cui l’Agenzia delle Entrate ti avverte di aver scoperto a tuo carico – oppure a carico della tua azienda – un inadempimento tributario, una violazione oppure un’irregolarità fiscale.

Nello specifico quando parliamo di avviso di accertamento ci riferiamo a quell’atto con cui l’Agenzia delle Entrate richiede – a te o alla tua azienda – maggiori imposte, sanzioni e interessi.

L’avviso di accertamento deve contenere delle informazioni ben precise, altrimenti è nullo. Le condizioni riguardano:

  • la motivazione ;
  • le tasse dovute (cd imponibili accertati) e le aliquote applicate,
  • l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate competente presso cui richiedere informazioni;
  • il nominativo del responsabile dell’atto.

Avviso di accertamento esecutivo: cosa significa?

Che cosa si intende quando si dice che l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate è un titolo esecutivo?

Vuol dire che tale atto, qualora non venga fatto un ricorso tributario e diventi definitivo, legittima l’Agenzia delle Entrate ad eseguire l’espropriazione forzata nei tuoi confronti.

Una volta trascorsi 30 giorni dal termine ultimo per il pagamento delle somme dovute (che coincide con il termine per presentare ricorso), le tasse e le sanzioni richieste con l’avviso di accertamento vengono affidate all’Agente della Riscossione (ex Equitalia) per l’esecuzione forzata.

Fai attenzione perchè qualora il Fisco ritenga possano esserci pericoli per la riscossione delle tasse che ti chiede, potrebbe procedere ad esecuzione forzata anche senza rispettare il termine di 30 giorni di cui ti abbiamo appena detto.

Attraverso il sistema dell’accertamento esecutivo, insomma, se non ti muovessi per tempo potresti avere un bel problema!

Rateizzazione avviso di accertamento

Se non c’è nulla da fare ed hai torto, sappi che puoi risolvere la tua situazione e versare quello che l’Agenzia delle Entrate ti richiede con l’avviso di accertamento entro 60 giorni dalla notifica.

Se decidi di pagare e rinunci a fare un ricorso tributario, ottieni la riduzione a un terzo delle sanzioni.

Per ottenere l’agevolazione è necessario versare le somme complessivamente dovute per le imposte, sanzioni e interessi entro il termine per presentare ricorso.

Per versare gli importi dovuti, devi utilizzare il modello di pagamento F24 e riportare i dati indicati nella Tabella F24 dell’avviso di accertamento nominata “Definizione dell’accertamento”.

Puoi pagare in un’unica soluzione o, in alternativa, rateizzare le somme richieste con l’avviso di accertamento.

Per le somme inferiori a 50.000 euro puoi rateizzare fino a un massimo di 8 rate trimestrali di pari importo.

Per gli importi superiori a 50.000 euro puoi rateizzare fino a 16 rate trimestrali.

In entrambi i casi, devi effettuare il versamento della prima o unica rata entro il termine per presentare un ricorso tributario (60 giorni).

Inoltre, devi inviare all’Ufficio la ricevuta di pagamento inviata o consegnata entro 10 giorni dal versamento.

Nel caso di rateizzazione, devi comunicare all’Ufficio che ti ha notificato l’avviso di accertamento il numero di rate prescelto.

Ricorda che sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi.

Le rate successive alla prima devono essere versate entro l’ultimo giorno di ciascun trimestre.

La notifica di avviso accertamento, quando deve avvenire?

L’amministrazione finanziaria, se deve contestarti delle violazioni tributarie e chiederti maggiori tasse da pagare, deve rispettare i termini previsti dalla legge.

Il Fisco deve notificarti l’avviso di accertamento entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata inviata la dichiarazione ed entro il 31 dicembre del settimo anno successivo rispetto a quello in cui si sarebbe dovuto inviare la dichiarazione.

Il ricorso tributario

Contro l’avviso di accertamento è possibile ricorrere entro il termine di 60 giorni della notifica dell’atto, attraverso la predisposizione di un ricorso tributario. Ricorda, però, per affrontare nel migliore dei modi una lite contro il Fisco hai bisogno di un avvocato tributarista. Ti spiego in questo video di chi si tratta.

Link al video

L’accertamento con adesione

Il contribuente può poi cercare di trovare un accordo con l’amministrazione finanziaria. Tale accordo si trova con il procedimento di accertamento con adesione.

Per trovare questo accordo, bisogna inviare entro 60 giorni un’istanza all’ufficio che ti ha notificato l’atto.

In questo caso, se vuoi presentare ricorso hai un po’ di tempo per pensarci perchè in caso di accertamento con adesione se non trovi un accordo hai comunque 150 giorni per opporti alla richiesta dell’Agenzia delle Entrate.

Ti spiego di cosa si tratta in questo video.

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Intimazione di pagamento: la soluzione definitiva

Se hai ricevuto la notifica di un’intimazione di pagamento da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione e vuoi sapere come risolvere, allora sei nel posto giusto!

Intimazione di pagamento: che cos’è?

È l’atto – simile al c.d. avviso di mora – che l’Agenzia delle Entrate-Riscossione notifica a imprenditori, professionisti e cittadini per informarli delle tasse e delle sanzioni dovute, prima di dare avvio all’espropriazione forzata (si tratta della pretesa tributaria).

Con questo vieni informato di quanti soldi devi dare al Fisco, e che ricevi se non hai pagato un avviso di accertamento oppure una cartella esattoriale.

I TERMINI

A partire dal momento in cui ricevi la notifica dell’intimazione di pagamento, hai solo 5 giorni per versare il dovuto (in un’unica soluzione ovvero mediante i piani di rateizzazione che trovi in questo articolo).

Diversamente dal termine di 60 giorni – a partire dalla data di notifica – previsto invece per il pagamento della cartella di pagamento,

Non c’è quindi da perdere tempo, se vuoi annullare il tuo debito fiscale ovvero il debito fiscale della tua azienda.

Intimazione di pagamento

Come rateizzare un’intimazione di pagamento

Importi fino a 60.000: gli importi richiesti con l’intimazione di pagamento possono essere rateizzati direttamente on-line, dichiarando la momentanea situazione didifficoltà. In questo caso, il piano ordinario permette di saldare il debito fino a 72 rate.

Importi superiori a 60.000 mila: gli importi richiesti con questo atto possono essere rateizzati presentando domanda attraverso specifici indirizzi PEC e allegando il relativo ISEE. Se la domanda viene accolta si può accedere al piano ordinario che permette la rateizzazione fino a 72 rate.

Quelle appena delineate sono le rateizzazioni secondo il piano ordinario.

Se si hanno difficoltà ad adempiere alla rateizzazione secondo i suddetti piani, gli importi richiesti possono essere rateizzati mediante un piano straordinario di 120 rate. Per accedere a questo piano è necessario dimostrare di non poter pagare il debito secondo criteri ordinari.

Devi sapere che può accedere alla rateizzazione degli importi richiesti con una intimazione dipagamento anche chi è decaduto dalle varie definizioni agevolate.

In caso di mancato pagamento delle somme richieste entro 5 giorni – in un’unica soluzione ovvero mediante rateizzazione – l’Agenzia delle entrate-Riscossione potrà avviare un pignoramento (mobiliare, immobiliare o presso terzi). Clicca qui e guarda qui il nostro video per saperne di più!

Ricorso contro intimazione di pagamento: aspetta prima di pagare

Quando è possibile presentare dinanzi al giudice un ricorso avverso l’intimazione di pagamento?

Il ricorso può essere presentato se, a seguito di una scrupolosa verifica dell’atto, dovessero emergere dei vizi relativi alle cartelle di pagamento indicate nell’intimazione.

È in particolare possibile impugnare l’atto quando:

  • vi è un evidente vizio di motivazione;
  • la cartella esattoriale indicata nell’intimazione di pagamento non è stata regolarmente notificata (oppure vi è un caso di omessa notifica);
  • l’ente impositore non ha più il diritto di vantare le somme richieste perché prescritte (notifica degli atti non è stata mai fatta, ad esempio).

A chi ci si rivolge per impugnarlo ?

Se l’intimazione di pagamento presenta dei vizi, come quelli di cui ti abbiamo appena parlato, è possibile presentare un ricorso.

In questo caso, ci si rivolge al giudice ordinario per quanto riguarda i contributi (inps e INAIL) e alla Commissione tributaria provinciale per quanto riguarda i tributi.

Devi sapere che avverso l’intimazione di pagamento è anche possibile procedere con un ricorso ai sensi dell’articolo 615 del cpc. La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 41226 del 22 dicembre 2021 ha affermato che “a fronte della notifica di una intimazione di pagamento, la parte può proporre opposizione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., con diverse finalità” .

Per scoprire di più sull’argomento guarda il video sul nostro canale Youtube

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Spese di rappresentanza: la disciplina fiscale!

Prima entrare nel merito delle spese di rappresentanza e del trattamento fiscale da applicare, occorre innanzitutto descrivere di che tipologia di spesa si tratta.

QUALI TIPOLOGIE DI SPESE RAPPRESENTANO?

La disciplina è contenuta nel comma 1 dell’articolo 1 del decreto 19 novembre 2008. Tale norma individua alcune tipologie di spese di rappresentanza, quali:

  • le spese per viaggi turistici durante i quali vengono svolte attività promozionali dei beni e dei servizi oggetto dell’attività dell’impresa;
  • le spese per feste e ricevimenti organizzati nell’ambito di ricorrenze aziendali o per l’inaugurazione di nuove sedi o uffici o stabilimenti;
  • le spese per feste, ricevimenti e altri eventi per mostre o fiere durante le quali vengono svolte attività promozionali beni e i servizi dell’impresa vengono mostrati;
  • ogni altra spesa per beni e servizi distribuiti o erogati gratuitamente, ivi inclusi i contributi erogati gratuitamente per convegni, seminari e manifestazioni.

Spese di rappresentanza deducibili

La disciplina ai fini fiscali delle spese di rappresentanza è delineata nel comma 2 dell’articolo 108 del TUIR.

Sulla base di tale norma, le spese di rappresentanza sono deducibili – se hanno i requisiti di inerenza e congruità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 19 novembre 2008 – nel periodo d’imposta di sostenimento.

In particolare, il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 19 novembre 2008, emanato in attuazione del comma 2 dell’articolo 108 del TUIR ha:

  • definito le spese di rappresentanza con un’elencazione esemplificativa;
  • ha fissato un nuovo limite di deducibilità di tali spese sulla base dei ricavi e dei proventi dell’impresa;
  • ha individuato una categoria di spese che – pur non essendo di rappresentanza – sono integralmente deducibili.

Sulla base dell’articolo 1, comma 1, del decreto 19 novembre 2008 le spese di rappresentanza sono deducibili se:

  • sono state effettivamente sostenute e documentate;
  • sono effettuate con finalità promozionali o di pubbliche relazioni;
  • il sostenimento risponde a criteri di ragionevolezza in funzione dell’obiettivo di generare anche potenzialmente benefici economici per l’impresa ovvero sia coerente con pratiche commerciali di settore.

Il requisito principale delle spese di rappresentanza, è da notare, consiste nella “gratuità” dell’erogazione di un bene o un servizio.

INTERPRETAZIONE DELLE SPESE DI RAPPRESENTANZA SECONDO L’AGENZIA DELLE ENTRATE

Tale interpretazione è condivisa dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 34/E del 13 luglio 2009. In tale circolare, l’Agenzia delle Entrate ha affermato come “il carattere essenziale delle spese di rappresentanza sia la mancanza di un corrispettivo o di una specifica controprestazione da parte dei destinatari dei beni e servizi erogati”.

Ulteriore requisito previsto dall’art. 1, comma 1, del decreto affinché le spese di rappresentanza siano inerenti è che le stesse perseguano “finalità promozionali o di pubbliche relazioni”.

Secondo l’Agenzia delle Entrate le finalità promozionali consistono nella divulgazione sul mercato dell’attività svolta, dei beni e servizi prodotti, a beneficio sia degli attuali clienti che di quelli potenziali. Le finalità di pubbliche relazioni sono perseguite attraverso tutte le iniziative volte a diffondere e/o consolidare l’immagine dell’impresa, ad accrescerne l’apprezzamento presso il pubblico, senza una diretta correlazione con i ricavi.

Ai fini della “ragionevolezza” e della “coerenza”, la spesa di rappresentanza deve risultare ragionevole in quanto idonea a generare ricavi ed adeguata rispetto all’obiettivo atteso in termini di ritorno economico; ovvero deve essere coerente con le pratiche commerciali di settore.

INCOERENZA DELLE SPESE CON LE PRATICHE COMMERCIALI: COSA SERVE IN QUESTI CASI?

In caso di assenza di pratiche commerciali di settore ovvero di incoerenza della spesa con le stesse, ai fini della deducibilità della spesa di rappresentanza è necessario dimostrarne la ragionevolezza, valutando l’idoneità della stessa a generare ricavi.

L’art. 1, comma 2, del decreto 19 novembre 2008 prevede che le spese di rappresentanza deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento, sono commisurate all’ammontare dei ricavi e proventi della gestione caratteristica dell’impresa risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa allo stesso periodo in misura pari:

a)     all’1,3 per cento dei ricavi e altri proventi fino a euro 10 milioni;

b)     allo 0,5 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 10 milioni e fino a 50 milioni;

c)     allo 0,1 per cento dei ricavi e altri proventi per la parte eccedente euro 50 milioni.

Il comma 2 individua un limite quantitativo entro il quale le spese di rappresentanza sono da considerare “congrue” rispetto al volume di ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa.

L’art. 108, comma 2, prevede che “sono comunque deducibili le spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a euro 50”.

Al riguardo, l’art. 1, comma 4, del decreto 19 novembre 2008 stabilisce che “ai fini della determinazione dell’importo deducibile di cui al comma 2, non si tiene conto delle spese relative a beni distribuiti gratuitamente di valore unitario non superiore a 50 euro, deducibili per il loro intero ammontare ai sensi del terzo periodo del comma 2 del citato articolo 108 del TUIR”.

DISCIPLINA PER L’EROGAZIONE GRATUITA DEI BENI

Al fine di evitare possibili incertezze, è stato precisato che l’importo delle spese relative alla distribuzione o erogazione gratuita di beni di valore unitario non superiore a 50 euro non interferisce con l’importo deducibile in base al comma 2 dello stesso art. 1 del decreto attuativo.

Con riferimento agli omaggi composti da più beni, il valore di 50 euro deve essere riferito al valore complessivo dell’omaggio e non al valore dei singoli beni che lo compongono. Così, ad esempio, un cesto natalizio composto di tre beni diversi che hanno un valore di 20 euro ciascuno, dovrà essere considerato come un unico omaggio dal valore complessivo di 60 euro.

Al riguardo, l’Agenzia delle Entrate ha precisato, in primo luogo, che la nozione di “valore unitario” assume una rilevanza specifica in relazione ai beni c.d. autoprodotti distribuiti gratuitamente, ossia quelli alla cui produzione e/o commercializzazione sia rivolta l’attività propria dell’impresa. In altro modo, infatti, per i beni destinati ad omaggi acquistati da terzi il valore di mercato tendenzialmente coincide con il costo sostenuto.

Spese di rappresentanza: il regime IVA

L’IVA relativa alle spese di rappresentanza – come definite ai fini delle imposte sui redditi (tranne quelle sostenute per l’acquisto di beni di costo unitario non superiore a 25,82 Euro) – non è ammessa in detrazione, in base a quanto stabilito all’articolo 19-bis1, primo comma, lettera h), del D.P.R. n. 633.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti compila il form di contatto.

Conciliazione tributaria: perché conviene?

La conciliazione tributaria consente di chiudere la lite contro il Fisco e risparmiare le sanzioni!

Nel processo tributario è possibile pervenire ad un accordo con il Fisco mediante la cosiddetta conciliazione tributaria.

Si tratta di uno strumento deflattivo che consente alle aziende di chiudere definitivamente la partita con il Fisco, successivamente alla presentazione di un ricorso tributario contro l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate ovvero successivamente all’instaurazione del giudizio di appello.

In caso di conciliazione andata a buon fine si chiude la partita con uno sconto sulle sanzioni dovute.

Conciliazione tributaria: cenni

Nelle ipotesi in cui l’azienda abbia la possibilità di perfezionare la conciliazione giudiziale tributaria durante lo svolgimento del processo tributario, tale opzione – operata chiaramente una valutazione complessiva della vicenda – dovrebbe essere attentamente considerata.

Tale strumento attribuisce al contribuente la possibilità di risolvere la controversia contro l’Agenzia delle Entrate insorta in tempi relativamente brevi, senza dover attendere lo svolgimento dei tre gradi di giudizio che potrebbe, tra l’altro, avere come esito una pronuncia sfavorevole.

La conciliazione fiscale si perfeziona con un accordo tra le parti che deve garantire un reciproco ristoro delle rispettive pretese, consentendo spesso ai contribuenti di ottenere una riduzione delle imposte e delle sanzioni amministrative richieste dall’Agenzia delle Entrate.

È importante, inoltre, considerare che la conciliazione giudiziale non preclude all’azienda la possibilità di continuare il giudizio, qualora non raggiunga l’accordo sperato con l’Amministrazione Finanziaria.

La conciliazione tributaria può essere perfezionata in udienza ovvero fuori udienza.

La conciliazione tributaria fuori udienza e in udienza

La conciliazione fiscale fuori udienza può essere proposta dall’azienda oppure dal Fisco (articolo 48 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546). In caso di esito positivo questi devono presentare un’istanza congiunta per la definizione della controversia.

Questa può essere totale o parziale. Nel primo caso riguarda l’intera pretesa dell’Agenzia delle Entrate, mentre nel secondo caso riguarda una parte della pretesa.

Se l’accordo conciliativo è totale, la Commissione Tributaria emette una sentenza di cessata materia del contendere: in tal caso l’azienda ha definitivamente chiuso la partita con il Fisco (articolo 48, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992).

Se l’accordo conciliativo è invece parziale, la Commissione Tributaria prende atto di tale circostanza e procede ad esaminare la causa per la quale le parti non sono invece pervenute all’accordo (articolo 48, comma 2, ultimo capoverso, del D. Lgs. n. 546 del 1992).

La conciliazione può considerarsi perfezionata al momento della sottoscrizione dell’accordo, nel quale devono essere indicate le somme dovute dal contribuente, con i relativi termini e le relative modalità di pagamento (articolo 48, comma 4, del D. Lgs. n. 546 del 1992).

La conciliazione tributaria in udienza

Per quanto riguarda la conciliazione giudiziale in udienza, la stessa può essere azionata dall’azienda, dal Fisco oppure dalla Commissione Tributaria.

Quando è il giudice tributario a prendere l’iniziativa per chiudere il contenzioso mediante la conciliazione giudiziale, questi invita le parti a tentare di definire le rispettive pretese tramite un accordo. Al buon esito della conciliazione giudiziale viene redatto un verbale in udienza contenente tutte le specifiche in merito all’accordo preso relativamente agli importi e all’assolvimento degli stessi (articolo 48-bis, comma 3, del D. Lgs. n. 546 del 1992).

Ove Fisco e contribuente raggiungano la conciliazione giudiziale, la Commissione Tributaria dichiara con sentenza che il giudizio è estinto per cessata materia del contendere.

I benefici della conciliazione tributaria per l’azienda

Il contribuente che raggiunge un accordo con il Fisco – attraverso l’istituto della conciliazione giudiziale – beneficia di una riduzione delle sanzioni amministrative, pari al 60 per cento se la conciliazione giudiziale interviene in primo grado e pari al 50 per cento se la conciliazione interviene in secondo grado. Il versamento delle somme può essere effettuato sia in un’unica soluzione sia a rate trimestrali.

La conciliazione tributaria rappresenta per l’azienda una valida alternativa al contenzioso tributario insorto con il Fisco.

Gli aspetti positivi di questo strumento sono:

  • i benefici in termini di riduzione delle sanzioni amministrative
  • la possibilità di chiudere una lite tributaria senza dover attendere i tempi per una sentenza definitiva.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

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Accertamento parziale: uno strumento micidiale!

Con l’accertamento parziale il Fisco reitera l’attività di accertamento contro il contribuente!

L’accertamento parziale è uno strumento – disciplinato dall’art 41 bis dpr 600 – che consente al Fisco di reiterare l’attività di accertamento tributario nei confronti del contribuente per una determinata annualità più volte.

Vediamo come funziona.

Le differenze con l’accertamento integrativo

L’Agenzia delle Entrate, nel rispetto dei termini decadenziali e delle prescrizioni normative previste, può successivamente integrare l’avviso di accertamento originariamente notificato all’azienda, dando così vita all’accertamento integrativo.

L’accertamento integrativo, però, come abbiamo spiegato qui nel nostro articolo, per essere legittimo impone al Fisco il rispetto di una serie di previsioni normative, a pena di nullità.

Per tale ragione il Fisco, quando deve notificare un avviso di accertamento a un contribuente, preferisce spesso utilizzare uno strumento ancor più micidiale rispetto all’avviso di accertamento ordinario: l’avviso di accertamento parziale 41 bis.

L’avviso di accertamento si definisce parziale in quanto l’emissione di tale atto non pregiudica al Fisco la possibilità di emanare, in relazione alla medesima annualità oggetto di controllo, un secondo avviso di accertamento.

Con l’accertamento 41 bis, in sostanza, l’Agenzia delle Entrate, qualora emergano nuovi elementi ovvero nuove informazioni rispetto a quelle acquisite nella verifica che ha dato luogo all’emissione del primo avviso di accertamento parziale, potrebbe anche emanare successivamente un nuovo atto, integrando o modificando il contenuto del primo avviso. Le informazioni sopraggiunte che hanno giustificato l’emissione di un secondo avviso di accertamento devono essere espressamente indicate nell’atto.

È importante evidenziare che l’Amministrazione Finanziaria, qualora opti per inviare in relazione alla medesima annualità un nuovo accertamento – dopo aver notificato il primo parziale – deve comunque rispettare i termini di decadenza di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo.

Perchè l’accertamento parziale è più pericoloso dell’accertamento integrativo?

Ma perché l’avviso di accertamento parziale è più pericoloso dell’accertamento cosiddetto ordinario?

Il primo risulta più pericoloso rispetto all’avviso di accertamento vero e proprio – che può dare luogo all’emissione di un accertamento integrativo solo in presenza di determinati elementi ben definiti – perché esso può dare vita ad ulteriori attività di verifica, e quindi all’emissione di ulteriori avvisi di accertamento parziali, anche sulla base di semplici presunzioni.

Utilizzando l’istituto dell’accertamento parziale, il Fisco potrebbe in sostanza reiterare l’attività di accertamento senza dover sottostare alla regola – della sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi – prevista per l’emissione degli avvisi di accertamento integrativi.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

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Accertamento integrativo: cos’è?

L’accertamento integrativo: cosa succede quando emergono nuovi elementi a carico dell’azienda!

L’accertamento integrativo viene notificato dall’Agenzia delle Entrate al contribuente quando, successivamente alla notifica dell’avviso di accertamento originario in materia di imposte dirette e IVA, vengono scoperte nuove violazioni della normativa tributaria per la medesima annualità oggetto di verifica.

Per saperne di più, guarda il nostro video.

1. Accertamento integrativo: la normativa

Il Fisco ha la possibilità di integrare o modificare l’avviso di accertamento originariamente emesso.

In particolare, l’articolo 43, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, stabilisce che “Fino alla scadenza del termine stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Agenzia delle entrate. Nell’avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte”.

L’integrazione o la modifica dell’avviso di accertamento originario può avvenire, però, solo se emergono nuovi elementi in grado di modificare la pretesa originaria dell’Amministrazione Finanziaria.

È importante segnalare che deve trattarsi di elementi non conoscibili da parte del Fisco al momento della notifica del primo avviso di accertamento, il cui apprendimento deve avvenire quindi in un momento successivo.

Accertamento integrativo

2. Accertamento integrativo: quando è illegittimo?

L’accertamento integrativo è da ritenersi illegittimo ove il Fisco risulti già in possesso degli elementi su cui si basa detto accertamento al momento della notifica del primo atto (l’avviso di accertamento originario, per l’appunto).

Tale interpretazione è stata confermata dalla giurisprudenza di merito (cfr. la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana 10 maggio 2016, n. 876.) – secondo cui “Il requisito della novità non ricorre qualora si tratti di diversa o più approfondita valutazione del materiale probatorio, già acquisito dall’Ufficio, come nel caso in esame, dove l’Agenzia delle Entrate ha effettuato una nuova valutazione degli elementi già conosciuti, perché oggetto della precedente verifica effettuata (…)”– e della Corte di Cassazione (cfr. le sentenze della Corte di Cassazione 8 maggio 2006, e 19 febbraio 2009, n. 4012).

È importante, infine, evidenziare che quando l’Agenzia delle Entrate notifica all’azienda un accertamento integrativo, la motivazione di quest’ultimo deve necessariamente richiamare i nuovi elementi sopravvenuti.

In caso contrario, l’accertamento integrativo sarebbe nullo per vizio di motivazione.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

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