Mese: Settembre 2022

Garante del contribuente: chi è e a cosa serve!

Il Garante del contribuente è una figura essenziale: aiuta le aziende quando il Fisco è scorretto!

Se nell’ambito di una verifica fiscale, da cui deriva la notifica di un avviso di accertamento, il comportamento dell’Agenzia delle Entrate è stato scorretto e si è rilevato lesivo dei diritti del contribuente (principi di collaborazione e buona fede), interpellare il Garante del contribuente può rivelarsi essenziale. Il funzionamento di tale figura è regolato dall’articolo 13 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Chi è?

Il Garante è una figura di fondamentale importanza che può aiutare le aziende e tutti i contribuenti in generale. Si tratta di un organo monocratico che opera in assoluta autonomia.

Esso si trova in ogni Regione d’Italia (presso la Direzione Regionale delle Entrate), in cui viene nominato dal Presidente della Commissione Tributaria Regionale, e nelle province autonome.

Garante del contribuente: la sua funzione all’interno dell’ordinamento

Occorre innanzi tutto chiedersi qual’è la funzione del Garante del contribuente all’interno dell’ordinamento tributario.

Quello che occorre prima di tutto sapere è che tale figura ha un ruolo rilevante in tutte quelle ipotesi in cui i rapporti tra l’Agenzia delle Entrate e il contribuente (azienda o persona fisica) diventano difficili.

Esso, infatti, funge da ponte tra le lamentele del contribuente che ravvisa delle irregolarità nell’operato del Fisco e le pretese avanzate da quest’ultimo attraverso una verifica fiscale o un avviso di accertamento.

Gli scopi del Garante sono:

  • aiutare l’Amministrazione Finanziaria e il contribuente a raggiungere un punto di incontro
  • supportare le legittime ragioni dell’azienda ove fondate
  • intercedere nei confronti del Fisco affinché quest’ultimo riconosca i propri errori e agisca di conseguenza esercitando il potere di autotutela.

Nei casi di particolare rilevanza, il Garante – al fine di garantire la tutela del contribuente – può richiamare gli uffici al rispetto delle norme contenute nello Statuto dei diritti del contribuenti oppure rivolgere raccomandazioni ai dirigenti degli uffici dell’Agenzia delle Entrate.

Per saperne di più, clicca qui e guarda il nostro video.

Istanza al Garante del contribuente

I contribuenti possono rivolgersi al Garante – per lamentare “disfunzioni, irregolarità, scorrettezze, prassi amministrative anomale o irragionevoli o qualunque altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione finanziaria” – inviando un’apposita istanza.

Le ragioni di cui si fa portavoce il Garante contribuente possono anche riguardare, ad esempio, una interpretazione travisata della normativa contenuta nello Statuto del contribuente da parte del Fisco.

Il Garante, per poter valutare eventuali scorrettezze o prassi irragionevoli dell’Agenzia delle Entrate, deve essere avvertito dal contribuente mediante una specifica segnalazione. Il Garante del contribuente, se ritiene fondata la segnalazione del contribuente, si attiva con l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate al fine di stimolare la procedura di autotutela tributaria dell’avviso di accertamento notificato al contribuente.

Egli non ha però la possibilità di intervenire in maniera diretta per modificare o per annullare l’atto di accertamento emanato dal Fisco.

È noto, infatti, che l’autotutela tributaria, è il potere che ha l’Agenzia delle Entrate di riesaminare i propri atti al fine di confermarli, modificarli o annullarli del tutto. Il Garante del contribuente ha, quindi, la facoltà di “attivare” la procedura di autotutela ma non ha la facoltà di esercitarne il relativo potere.

Il Garante ha, quindi, una essenziale funzione deflattiva del contenzioso tributario, volta ad evitare che dall’insorgenza dello stesso possa scaturire un pregiudizio sia per l’azienda (costretta ad una inutile e costosa lite tributaria) sia per il Fisco (che al fine di sostenere un contenzioso tributario evitabile dovrà spendere risorse pubbliche, oltre ad assumersi il rischio di una possibile condanna alle spese).

Garante del Contribuente

Garante del contribuente: come funziona l’iter?

Il Garante per svolgere il suo compito – dopo aver ricevuto la segnalazione da parte dell’azienda – acquisisce la documentazione e le delucidazioni necessarie dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’avviso di accertamento.

Questo, una volta interpellato, deve prontamente dare un riscontro al Garante entro 30 giorni dalla relativa richiesta.

A ben vedere, è nel riscontro che deve essere assicurato dall’Amministrazione alle richieste presentate dal Garante che è possibile individuare tutta la forza di questo organo e la capacità di essere un ausilio concreto ai diritti del contribuente.

L’attività del Garante del Contribuente può essere, dunque, di estrema utilità per le aziende che lamentano irregolarità dell’azione amministrativa nei loro confronti o che sono destinatarie di un atto impositivo di dubbia legittimità.

Il ricorso a questo strumento può risultare una strada efficace per rinunciare al contenzioso tributario e giungere rapidamente, e in modo soddisfacente, ad una risoluzione della lite potenziale con il Fisco.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

Se cerchi qualcuno che ti aiuti a rivolgerti al Garante, compila il form di contatto qui sotto.

Reati tributari: come si dividono!

I reati tributari si dividono in reati in cui conta l’importo evaso e reati in cui non rileva!

È importante sapere che da una verifica fiscale – contestata mediante la notifica di un avviso di accertamento – possono scaturire dei reati tributari, se la violazione ha una rilevanza penale.

1. Reati tributari: come si dividono?

reati tributari possono essere classificati in due categorie:

  • reati fiscali che si configurano a prescindere dall’importo evaso sottratto a tassazione;
  • reati fiscali che si configurano in base all’importo evaso sottratto a tassazione.

2. Reati tributari che si configurano a prescindere dall’importo evaso

A questa categoria di reati tributari appartengono i reati tributari qui elencati. Vediamo quali sono le pene.

Reato tributario di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture inesistenti. La pena – prevista dall’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 –  per questo reato è la reclusione da quattro a otto anni. Se l’importo evaso è inferiore a centomila euro, la reclusione – sulla base del comma 2-bis dell’articolo 2 – varia da un anno e sei mesi a sei anni.

Reato di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. La pena – prevista dall’articolo 8 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da quattro a otto anni. Se l’importo evaso è inferiore a centomila euro, la reclusione – sulla base del comma 2-bis dell’articolo 8 – varia da un anno e sei mesi a sei anni.

Reato fiscale di occultamento o distruzione di documenti contabili. La pena – prevista dall’articolo 10 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da tre a sette anni.

Reato di omesso versamento di ritenute certificate. La pena – prevista dall’articolo 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da sei mesi a due anni.

3. Reati tributari che si configurano sulla base dell’importo evaso

Alla seconda categoria appartengono i reati fiscali qui di seguito indicati.

Reato tributario di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. La pena – prevista dall’articolo 3 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da tre a otto anni.

Reato di dichiarazione infedele. La pena – prevista dall’articolo 4 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da due anni a quattro anni e sei mesi.

Reato fiscale di omessa dichiarazione. La pena – prevista dall’articolo 5 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da due a cinque anni.

Reato di omesso versamento dell’IVA. La pena – prevista dall’articolo 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da sei mesi a due anni.

Reato tributario di indebita compensazione. La pena – prevista dall’articolo 10-quater del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da sei mesi a due anni nelle ipotesi di crediti non spettanti e da un anno e sei mesi a sei anni nelle ipotesi di crediti inesistenti.

Reato fiscale di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. La pena – prevista dall’articolo 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 – per questo reato è la reclusione da sei mesi a quattro anni. Se l’ammontare complessivo delle imposte evase è superiore a duecentomila euro si applica la reclusione da uno a sei anni (cfr. l’ultimo periodo del comma 1 dell’articolo 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74).

4. Reati tributari quali sono i più importanti?

Alla luce di quanto sopra descritto è evidente come sia assolutamente necessario prestare maggiore attenzione ai reati fiscali che si configurano a prescindere dall’importo evaso. I più frequenti, sotto questo profilo, sono i reati di emissione e utilizzo di fatture false.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti o di una consulenza fiscale compila il form di contatto qui sotto.

Occultamento o distruzione di documenti contabili: il reato

Occultamento o distruzione di documenti contabili: un reato punito con la reclusione da 3 a 7 anni!

L’occultamento o distruzione di documenti contabili configura un reato tributario commesso dal contribuente per impedire all’Agenzia delle Entrate o alla Guardia di Finanza la ricostruzione dei redditi e del proprio volume di affari nell’ambito di un controlli fiscale o di una verifica fiscale, al fine di evadere le relative imposte.

La Corte di Cassazione, sez. 3 penale, nella recente sentenza n. 11123 del 2021 ha evidenziato che è possibile desumere il reato tributario in esame qualora a seguito di attività di accertamento fiscale emergano elementi che dimostrino l’occultamento o la distruzione di documenti contabili.

Nel caso esaminato dalla Corte, in particolare, le fatture non rinvenute presso la ditta committente, accusata del reato, erano state trovate presso i destinatari delle fatture stesse. Considerato che le fatture sono emesse in doppio esemplare, il mancato ritrovamento dell’altro esemplare presso il soggetto che ha emesso la fattura fa desumere il suo occultamento o la sua distruzione.

1. Occultamento o distruzione di documenti contabili: reato e sanzione penale

Il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili è disciplinato dall’art. 10 del d.lgs. n. 74 del 2000 e sanziona penalmente chiunque occulta o distruggein tutto o in partele scritture contabili o i documenti che è obbligatorio conservare, per non versare le imposte sui redditi o sull’IVA.

La fattispecie delittuosa contempla e punisce anche l’ipotesi in cui il soggetto agisce al fine di consentire l’evasione fiscale a terzi.

Il soggetto che commette il reato di occultamento o distruzione di documenti contabili è punito con la pena della reclusione da 3 a 7 anni, salvo che il fatto non costituisca un reato più grave.

È importante evidenziare come il reato in esame non preveda una soglia di punibilità riferita all’ammontare dell’imposta evasa!

Scopo della norma è, dunque, garantire al Fisco la piena e corretta conoscenza della situazione dei contribuenti, affinché questi ultimi paghino le imposte dovute.

Il reato relativo all’occultamento o alla distruzione di documenti contabili differisce dalla omessa tenuta delle scritture contabili disciplinata dall’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, che è una violazione soggetta alla sanzione amministrativa da euro 1.000 ad euro 8.000.

Per configurare il reato tributario in esame, al contrario, non è sufficiente un comportamento omissivo del contribuente, come chiarito anche dalla Cassazione, sez. 3 penale, nella sentenza n. 11464 del 2019, essendo necessaria la commissione dell’occultamento o della distruzione dei documenti.

2. Occultamento o distruzione di documenti contabili e consumazione del reato

La fattispecie delittuosa in esame prevede, a ben vedere, due diverse azioni : l’occultamento o la distruzione di documenti contabili, in modo da non consentire all’Amministrazione Finanziaria la ricostruzione del reddito imponibile dell’impresa.

Diverso è, quindi, il momento di consumazione del reato nelle due differenti ipotesi.

Nel caso in cui il contribuente nasconda i documenti contabili o non li esibisce in sede di accertamento fiscale, il reato ha natura permanente in quanto la condotta delittuosa dura sino al momento della verifica del Fisco.

La Corte di Cassazione, sez. 3 penale, nella sentenza n. 13734 del 2019 ha ribadito, in proposito, che l’occultamento consiste nella temporanea o definitiva indisponibilità dei documenti contabili da parte degli organi che svolgono l’accertamento.

Se, invece, il contribuente distrugge i documenti contabili il reato è istantaneo e si consuma al momento dell’eliminazione della documentazione, che può essere realizzata anche rendendo la stessa illeggibile mediante cancellature.

Questa distinzione rileva ai fini del momento dal quale decorre la prescrizione del reato. In caso di occultamento, infatti, la prescrizione inizia a decorrere solo a partire dalla data dell’accertamento fiscale.

A tal proposito la Corte di Cassazione, sez. 3 penale, nella sentenza n. 30683 del 2018, ha chiarito che l’imputato che intende avvalersi del termine di prescrizione connesso alla distruzione della documentazione, deve dimostrare che i documenti contabili sono stati distrutti, e non semplicemente occultati, e il periodo di distruzione.

3. Occultamento o distruzione di documenti contabili e reato di bancarotta fraudolenta documentale

Il reato in esame è diverso dal reato di bancarotta fraudolenta documentale previsto all’art. 216 del R.D. 267/1942 (Legge Fallimentare), come chiarito dalla Corte di Cassazione, sez. 5 penale, nella sentenza n. 22486 del 2020.

I giudici di legittimità hanno evidenziato che, pur potendo avere ad oggetto entrambi i reati la distruzione o l’occultamento delle stesse scritture contabili, il bene giuridico offeso e il fine delittuoso è diverso, realizzandosi, pertanto, un concorso formale di reati.

In particolare, a differenza del reato tributario, nella bancarotta fraudolenta documentale il fallito agisce in pregiudizio dei creditori o per ottenere un profitto ingiusto.

4. Occultamento o distruzione di documenti contabili e possibilità di ricostruire il risultato economico

Il reato tributario in esame non si configura qualora il contribuente sia in grado di ricostruire il proprio reddito e il volume d’affari, nonostante non sia in possesso della documentazione obbligatoria.

È quanto ha stabilito la Cassazione, sez. 3 penale, nella sentenza n. 22126 del 2017 in riferimento ad un imprenditore che aveva subito una verifica fiscale dalla quale era emersa l’assenza di poche fatture, ciononostante era possibile ricostruire il reddito tramite la documentazione conservata dall’imprenditore stesso.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti o di una consulenza fiscale compila il

Detraibilità IVA auto: 4 esempi per non sbagliare!

La detrazione dell’IVA sulle auto aziendali: l’uso promiscuo e l’utilizzo esclusivo nell’azienda!

La detraibilità IVA sull’auto è soggetta al rispetto di una disciplina peculiare all’interno del nostro ordinamento, per il fatto che – diversamente dalla normativa comunitaria contenuta nella direttiva n. 112 del 2006 – nel nostro ordinamento vi sono dei limiti alla detrazione IVA nelle ipotesi in cui l’acquisto o il noleggio dell’auto non venga effettuato in modo esclusivo per l’esercizio dell’impresa.

Le norme

La normativa che stabilisce la detraibilità dell’IVA relativa all’acquisto dell’auto  e delle relative spese come carburante, manutenzione e ricambi – si ricava dall’art. 19, comma 1, e dall’art. 19-bis1, lettera c), del D.P.R. 633/72.

L’articolo 19, comma 1, del D.P.R. 633/72, attribuisce in linea generale al soggetto passivo IVA la possibilità di detrarre al 100% l’IVA relativa all’acquisto di beni impiegati nell’ambito dell’attività di impresa. Tra tali beni rientra anche l’auto.

L’articolo 19-bis1, lettera c), del D.P.R. 633/72, prevede la detrazione IVA auto al 40% in relazione a “tutti i veicoli a motore, diversi dai trattori agricoli o forestali, normalmente adibiti al trasporto stradale di persone o beni la cui massa massima autorizzata non supera 3.500 Kg e il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, non è superiore a otto”. È infatti da osservare che – attraverso la decisione di esecuzione (UE) 2019/2138 del Consiglio europeo del 5 dicembre 2019 – lo Stato italiano è stato autorizzato a mantenere, fino al 31 dicembre 2022, il limite del 40 per cento per la detraibilità dell’IVA sull’acquisto delle auto non utilizzate in modo esclusivo per finalità professionali.

Quindi, ad oggi, per quanto riguarda la detraibilità IVA per l’acquisto dell’auto possono esservi due casi.

  • Detraibilità IVA integrale al 100%: si ha quando i veicoli stradali a motore, per trasporto di persone o cose, sono adoperati in modo esclusivo per l’esercizio di un’attività d’impresa, professione o arte, cioè siano un mezzo o uno strumento per l’attività propria dell’impresa.
  • Detraibilità IVA limitata al 40%: quando i veicoli stradali a motore per trasporto di persone o cose non sono adoperati esclusivamente per un’attività d’impresa, arte o professionema sono utilizzati in modo promiscuo.

È importante notare che una volta determinata la percentuale di detraibilità dell’IVA per l’acquisto dell’auto, la medesima percentuale si applica:

  • alle prestazioni di servizi collegate ai veicoli;
  • alle prestazioni di custodia del veicolo;
  • alla manutenzione, alle modificazioni e alla riparazione del veicolo;
  • al transito stradale (pedaggio autostradale);
  • all’acquisto di carburanti e lubrificanti;
  • al noleggio e al leasing.

Detrazione IVA auto professionisti

Un professionista, solitamente, può trovarsi nella condizione di dover:

  • acquistare un’autovettura o un veicolo nuovo;
  • noleggiare una vettura, anche a lungo termine;
  • portare a termine un contratto di leasing, con la possibilità di esercitare l’opzione per l’acquisto del mezzo alla fine della locazione finanziaria.

La detrazione dell’IVA per l’acquisto dell’auto da parte di un professionista dipende dal tipo di utilizzo che questi ne fa.

Se il libero professionista utilizza il veicolo solo ed esclusivamente per l’attività professionale, l’IVA può essere detratta al 100%. È il caso, ad esempio, degli agenti di commercio.

Deve però tuttavia osservarsi che, in caso di contestazione circa la detraibilità IVA auto applicata in via integrale, il professionista deve provare il possesso di un altro veicolo per scopi extra professionali e/o personali.

Se, invece, il professionista non utilizza l’auto solo ed esclusivamente per l’attività professionale, l’IVA pagata per l’acquisto della stessa è detraibile in misura pari al 40%.

È importante notare che la percentuale di detraibilità IVA sulle autovetture è forfettaria: questo vuol dire che non è possibile constatare una quota maggiore relativa al suo effettivo utilizzo al fine di avere una maggiore detraibilità dell’IVA.

È importante notare che le medesime regole circa la detraibilità IVA auto si applicano sia nel caso di un contratto di noleggio auto a lungo termine sia nelle ipotesi di leasing: detraibilità IVA al 100% nelle ipotesi di uso esclusivo nell’attività professionale e detraibilità IVA al 40% nelle ipotesi di uso promiscuo.

Adesso proviamo a fare degli esempi.

Esempio n. 1: detraibilità IVA auto a uso promiscuo

Acquisto dell’auto, impiegata ad uso promiscuo, del valore di 50.000 € + IVA al 22%.

  • Tale professionista in totale pagherà 61.000 € (50.000 + IVA di 11.000) per il costo di acquisizione.
  • L’IVA è pari a 11.000 €, ma da quest’ultima somma si può detrarre il 40 per cento, ovvero 4.400 €.
  • La restante somma, ossia 6.600 €, trattandosi di IVA indetraibile costituirà un costo fiscalmente deducibile.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto sarà 50.000 € + 6.600 € = 56.600 €.

La parte di IVA che non è stata possibile detrarre costituirà quindi un costo deducibile dal reddito di impresa.

Esempio n. 2: detraibilità IVA per riscatto auto nell’ambito di un contratto di leasing

Leasing auto: riscatto finale di un’auto per uso esclusivo nell’attività professionale, del valore di 50.000 € + IVA al 22%.

  • Il professionista in totale pagherà 61.000 € (50.000 + IVA di 11.000) per il costo di riscatto dell’auto.
  • L’IVA è pari a 11.000 € ed è possibile detrarre integralmente tale importo.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto sarà 50.000 €.

Detraibilità IVA auto aziendali

Anche un’impresa o un’azienda può trovarsi nella condizione di dover:

  • acquistare un’auto;
  • noleggiare una vettura, anche a lungo termine;
  • portare a termine un contratto di leasing, con la possibilità di esercitare l’opzione per l’acquisto del mezzo alla fine della locazione finanziaria.

Anche per quanto riguarda le aziende, le percentuali di detraibilità dell’IVA per l’acquisto delle auto aziendali variano, quindi, dal 40% al 100% e sono determinate, anche in questo caso, dal modo in cui si utilizza il veicolo (uso promiscuo o strumentale).

Entrando nello specifico dei vari casi:

  • le aziende che adoperano il veicolo come bene strumentale possono detrarre l’IVA al 100%, sia che la vettura venga acquistata oppure nel caso essa venga noleggiata o utilizzata in leasing;
  • le imprese che utilizzano il veicolo per attività non strettamente legate all’attività di impresa possono beneficiare di una detrazione IVA del 40% a prescindere dal titolo di possesso dell’autovettura;
  • aziende che concedono un auto ad uso promiscuo ad un dipendente per la maggior parte del periodo di imposta possono beneficiare della detrazione IVA al 40%. La detrazione dell’IVA spetta al 100%, se il corrispettivo addebitato al dipendente risulta di un ammontare almeno pari al fringe benefit (beneficio accessorio).

Adesso proviamo a fare degli esempi.

Esempio n. 1: detraibilità IVA noleggio auto a uso promiscuo

Noleggio dell’auto, impiegata ad uso promiscuo, con rate del valore di 500 € + IVA al 22%.

  • L’azienda in totale pagherà al mese 500 € + 110 € di IVA.
  • L’IVA al mese è  pari a 110 €, ma da quest’ultima somma si può detrarre il 40 per cento, ovvero 44 €.
  • La restante somma, ossia 66 €, trattandosi di IVA indetraibile costituirà un costo fiscalmente deducibile.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto al mese sarà 500 € + 66 € = 566 € (€ 6.792 all’anno).

La parte di IVA che non è stata possibile detrarre costituirà quindi un costo deducibile dal reddito di impresa.

Esempio n. 2: detraibilità IVA noleggio auto a uso promiscuo

Noleggio dell’auto, impiegata ad uso esclusivo nell’esercizio dell’impresa, con rate del valore di 500 € + IVA al 22%.

  • L’azienda in totale pagherà al mese 500 € + 110 € di IVA.
  • L’IVA al mese è  pari a 110 € ed è possibile detrarre integralmente tale importo.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto al mese sarà 500 € (€ 6.000 all’anno).

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti o di una consulenza fiscale compila il form di contatto qui sotto.

Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: il reato e il concorso del professionista!

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici è disciplinato dall’art. 3 del d.lgs. n. 74 del 2000. Si tratta di un reato tributario attraverso il quale il contribuente maschera nella dichiarazione fiscale la propria reale situazione al fine di evadere le imposte sui redditi (IRES e IRAP) e IVA. 

1. Dichiarazione fraudolenta realizzata mediante altri artifici: quando si configura il reato?

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici – disciplinato come detto dall’art.3 del d.lgs. n. 74 del 2000 – è un reato caratterizzato da due fasi.

La prima fase consiste nella realizzazione di un’attività preparatoria a porre in essere l’attività ingannatoria prodromica. La seconda fase consiste nella presentazione di una dichiarazione dei redditi mendace.

Il reato si configura quando il contribuente indica nella dichiarazione dei redditi o IVA elementi attivi per un importo inferiore a quello effettivo o elementi passivi, crediti e ritenute fittizi, ricorrendo contemporaneamente le seguenti condizioni:

  • l’imposta evasa è superiore ad euro 30.000;
  • il complesso degli elementi attivi sottratti a tassazione è superiore al 5 percento del complesso degli elementi indicati nella dichiarazione dei redditi (o IVA) o comunque è superiore a euro 1.500.000, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie risulti superiore al 5%dell’imposta complessiva o comunque a euro 30.000,00.

È necessario precisare che non si considerano mezzi fraudolenti la violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o l’indicazione in fattura di elementi attivi inferiori a quelli reali.

È opportuno evidenziare, inoltre, chela fattispecie in esame è diversa dalla dichiarazione fraudolenta realizzata mediante l’utilizzo di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti, specificamente disciplinata all’art. 2 del d.lgs. 74/2000, che si caratterizza per un’inesistenza dell’operazione economica sottostante alla fattura.

2. Dichiarazione fraudolenta realizzata mediante altri artifici: la pena e la prescrizione del reato

Il delitto di dichiarazione fraudolenta realizzata mediante altri artifici si consuma nel momento in cui il contribuente presenta la dichiarazione. È importante evidenziare che in caso di condanna definitiva, è prevista una pena detentiva che varia da tre a otto anni.

Se l’imposta evasa supera i 100.000euro è prevista, inoltre, l’applicazione della cosiddetta confisca allargata disciplinata all’art. 240-bis del codice penale. Ciò significa che possono essere confiscati al condannato i beni di cui non può dimostrare la provenienza e di valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica esercitata.

Dalla presentazione della dichiarazione mendace comincia a decorrere il termine di prescrizione che è di 10 anni e 8 mesi. In caso di atti interruttivi della prescrizione il termine, invece, è di 13 anni e 4 mesi.

3. Dichiarazione fraudolenta realizzata mediante altri artifici: condotta delittuosa e soggetti attivi del reato

La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici è un reato fiscale dichiarativo in cui rileva l’intenzionalità e la volontà del soggetto di presentare una dichiarazione falsa al fine di evadere le imposte e di ostacolare l’accertamento fiscale. L’evasione si ha anche se il soggetto agisce per conseguire un indebito rimborso o per il riconoscimento di un credito d’imposta inesistente.

In merito all’intenzionalità della fattispecie delittuosa, la Corte di Cassazione, nella sentenza 21895 del 2017, ha escluso la configurabilità del reato nel caso di una società di leasing che aveva emesso fatture non imponibili ai fini Iva relative al pagamento dei canoni di un’imbarcazione. Dette fatture erano state riportate in dichiarazione in modo corrispondente alle scritture contabili. I giudici di legittimità hanno evidenziato che, nonostante l’uso improprio del regime di non imponibilità IVA previsto all’art. 8 bis del D.P.R. 633 del 1972, mancava nel caso di specie l’intento di ostacolare l’accertamento fiscale che integra il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.

È opportuno ricordare che la riforma operata con il D.lgs. 158 del 2015 ha ampliato la platea dei possibili autori del reato tributario in esame, in quanto quest’ultimo può essere commesso anche da chi non è tenuto alle scritture contabili obbligatorie.

Soggetto attivo del reato è, inoltre, anche l’amministratore, il liquidatore o il rappresentante di una società che presenta la dichiarazione mendace al fine di evadere le imposte dovute dalla società medesima.

4. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: il concorso del professionista nel reato  

Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici può essere realizzato anche in concorso con il professionista al quale il contribuente ha delegato i propri adempimenti fiscali.

In particolare, la Cassazione nella sentenza 19672 del 2019 ha chiarito che integra la fattispecie delittuosa in esame la condotta del professionista che rilascia un visto di conformità mendace o una certificazione tributaria infedele.

Si tratta, infatti, secondo la Suprema Corte di mezzi fraudolenti idonei a sviare l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, inducendola in errore.

Sempre secondo i giudici di legittimità nel caso in esame il reato tributario concorre con lo specifico reato previsto dall’art. 39 d.lgs. 241 del 1997.

5. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici: cause di esclusione da responsabilità penale

La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici non è punibile a titolo di tentativo secondo quanto previsto dall’art. 6 della Legge sui reati tributari: il soggetto può essere sanzionato penalmente solo laddove presenta la dichiarazione mendace.

La fattispecie in esame, però, è punibile anche se il delitto è solo “tentato” qualora le operazioni siano compiute anche in un altro Stato membro dell’Unione Europea allo scopo di evadere l’IVA per un importo totale non inferiore a 10 milioni di euro.

È importante evidenziare che a seguito delle modifiche intervenute con il Decreto fiscale 2020 (D.L.124 del 2019) è prevista la non punibilità della fattispecie in esame se il contribuente salda il proprio debito attraverso il ravvedimento operoso.

La punibilità del soggetto che ha commesso il reato in esame è esclusa, inoltre, anche in caso di “collaborazione volontaria” ai sensi del D.L. n. 167 del 1990.

6. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e responsabilità ex d.lgs. 231/2001.

Se il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici è commessa da un ente è prevista la responsabilità amministrativa dello stesso ai sensi del d.lgs. 231 del 2001.

La responsabilità amministrativa dell’ente per il reato tributario si configura, però, solo se il delitto può effettivamente essere attribuito all’ente: si verifica tale caso quando il reato è stato, ad esempio, compiuto da un soggetto che fa parte dello stesso ente e che ha agito nell’interesse o a vantaggio di quest’ultimo.

L’art. 5 del suddetto decreto stabilisce, a tal proposito, che l’ente è responsabile per i reati commessi da persone che hanno funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa, di gestione e controllo, o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di tali soggetti.

È esclusa, invece, la responsabilità dell’ente qualora le persone che vi operano abbiano commesso la fattispecie delittuosa per ottenere un interesse personale, svincolato da quello dell’ente.

La sanzione prevista per l’ente in caso di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici è di carattere pecuniario e può giungere fino a 500 quote. Il valore monetario riferito ad ogni singola quota è stabilito dal Giudice.

Possono essere comminate, inoltre, sanzioni a carattere interdittivo per l’ente. In particolare:

  • interdizione dall’esercizio dell’attività;
  • divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio;
  • esclusione dalla concessione di autorizzazioni, licenze, contributi, agevolazioni, finanziamenti e revoca di quanto già ottenuto.
  • divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Spetta dunque all’ente dotarsi di un efficace modello di organizzazione, gestione e controllo ex d. lgs. n. 231 del 2001, per evitare di incorrere in fattispecie di responsabilità amministrativa derivante da reato e nelle gravi sanzioni correlate.

Se hai bisogno di risolvere problemi con il Fisco, contattaci

Deducibilità IMU: possibile il rimborso ai fini IRES e IRAP!


Deducibilità IMU e rimborso ai fini IRES e IRAP: cosa fare dopo il giudizio di costituzionalità!

La deducibilità IMU, a seguito delle conclusioni cui è pervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 262 del 19 novembre 2020, è possibile ai fini IRES ed IRAP.

Con tale sentenza, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, D. Lgs. n. 23/2011, nella versione vigente per l’anno fiscale 2012, nella parte in cui dispone che l’IMU pagata dal contribuente sugli immobili strumentali è indeducibile dalle imposte sui redditi d’impresa.

Deducibilità IMU ai fini IRES

In materia di IRES, il presupposto dell’imposta è il possesso di un “reddito complessivo netto”(art. 75, comma 1, TUIR) al fine di tassare una capacità economica effettiva del soggetto passivo d’imposta. La conseguenza di tale principio è la regola secondo cui tutti i costi sostenuti dall’impresa devono poter essere dedotti quando hanno i requisiti di certezza ed oggettiva determinabilità, corretta imputazione ed inerenza rispetto all’attività svolta dall’impresa.

Tra tali costi rientra anche l’IMU: la regola generale, contenuta nell’art. 99, comma 1, del TUIR, è quella secondo cui le imposte sono integralmente deducibili dal reddito d’impresa.

La Corte Costituzionale affronta proprio questo tema in relazione alla deducibilità IMU per l’anno 2012.

Secondo la Corte Costituzionale, l’IMU sui beni strumentali è un onere certo ed inerente: è un costo necessario alla stregua di un ordinario fattore di produzione dal quale la società non può sottrarsi. Ne consegue che l’indeducibilità determina la tassazione di una ricchezza inesistenze e, come tale, contraria a capacità contributiva. Ad avviso della Corte, il legislatore può derogare a tale regola limitando la deducibilità di componenti negativi di reddito. Tali deroghe, però, ad avviso dei giudici costituzionali, devono essere giustificate, rispondere ad interessi meritevoli di tutela (anche extrafiscale)ed essere proporzionate alle finalità perseguite.

Per tali ragioni, la Corte Costituzionale ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, D. Lgs. n. 23/2011 – laddove si prevede l’indeducibilità dell’IMU sugli immobili strumentali dall’imponibile IRES – per “riscontrata violazione del principio di coerenza e quindi di ragionevolezza ai sensi degli artt. 3 e 53 della Costituzione”.

Deducibilità IMU ai fini IRAP

La sentenza della Corte Costituzionale quivi esaminata non affronta la deducibilità IMU ai fini IRAP né per l’anno 2012, né per gli anni successivi.

Come è noto, l’IRAP è un’imposta che si applica sul “valore della produzione netta” (art. 4,comma 1, D. Lgs. n. 446/1997) e che colpisce l’attività produttiva, distintamente considerata, senza fare riferimento alle condizioni economiche complessive del soggetto tassato.

Colpire l’attività produttiva vuol dire riconoscere alla stessa una capacità contributiva, impersonale, di natura reale, completamente staccata da quella personale dei singoli percettori di reddito, fondata sulla capacità produttiva originata dalla combinazione dei fattori della produzione.

Riprendendo le motivazioni della sentenza n. 262/2020, analogamente a quanto affermato in tema di IRES, anche ai fini IRAP l’IMU sugli immobili strumentali è un onere certo ed inerente. È un costo necessitato che si atteggia alla stregua di un ordinario fattore di produzione, dal quale la società non può sottrarsi.

Ora, come chiaramente illustrato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 15115/2018, il principio di inerenza che deve essere seguito ai fini IRAP è quello civilistico, desumibile dalla corretta applicazione dei principi contabili.

L’IRAP non esclude certamente un “controllo di inerenza”, ma richiede un controllo basato su regole civilistico/contabili. Il principio contabile OIC 12 iscrive alla voce B14 tutti i costi non iscrivibili per natura nelle altre voci della classe B) del Conto economico, tra cui “imposte indirette, tasse e contributi”, e pertanto facendovi rientrare anche l’IMU.

Conseguentemente, se il legislatore ha liberamente individuato quale indice di capacità contributiva il valore aggiunto tradotto nel “valore della produzione netta” e calcolato come differenza di ricavi e costi dei fattori produttivi (al lordo, in senso lato, di ogni remunerazione), la deduzione di un costo ricompreso nella base imponibile non può essere limitato senza le adeguate motivazioni richiamate (dalla Corte Costituzionale) in tema di IRES:

  • evitare indebite deduzioni di spese di dubbia inerenza;
  • evitare ingenti costi di accertamento;
  • prevenire fenomeni di evasione o elusione.

Se tali ragioni sono state ritenute dalla Corte Costituzionale assenti in tema di IRES, alle medesime conclusioni può pervenirsi in tema di IRAP.

Anche per l’IRAP si ritiene possibile procedere alla richiesta di rimborso per le annualità a partire dal 2012. In caso di probabile rifiuto da parte dell’Amministrazione Finanziaria si può richiedere al giudice tributario il diretto riconoscimento del diritto al rimborso per incostituzionalità della norma con l’applicazione del principio di diritto espresso dalla medesima Corte Costituzionale e, in subordine, il rinvio della questione alla Corte Costituzionale.

Termine di decadenza dell’azione di rimborso IRES e IRAP

A seguito di declaratoria di incostituzionalità di una norma che vieta la deducibilità di un costo, il contribuente può ottenere il rimborso delle maggiori imposte versate all’Erario ai sensi dell’articolo 21 del D. Lgs. n. 546/1992 e dell’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 602/1973.

Nel caso di specie, il diritto alla restituzione dell’IMU indeducibile è sorto nel momento in cui è stata pubblicata la sentenza della Corte Costituzionale, che ha reso indebito il pagamento eseguito.

Alla luce di quanto sopra, pertanto, appare corretto ritenere sostenibile una richiesta di rimborso per l’anno 2012 in ragione della dichiarazione di incostituzionalità della norma che imponeva l’indeducibilità IMU dall’IRES e dall’IRAP.

Nell’ipotesi del probabile rifiuto da parte dell’Amministrazione Finanziaria, si potrebbe presentare un ricorso tributario con cui chiedere il riconoscimento del diritto al rimborso IMU invocando il pronunciamento della Corte Costituzionale e l’applicazione dell’art. 21 del D. Lgs. n. 546/1992.

Deducibilità IMU ai fini IRES e IRAP: esempi

Sulla base delle conclusioni cui è pervenuta la Corte Costituzionale nella sentenza n. 262 del 19 novembre 2020,possiamo evidenziare alcuni esempi sulle possibilità che un’impresa han con riferimento all’IMU corrisposta dal 2012 ad oggi sugli immobili strumentali.

ESEMPI

  • Anno 2012. Per la maggiore IRES 2012 – pagata a seguito dell’indeducibilità IMU sui fabbricati – il contribuente deve presentare un’istanza di rimborso ai fini IRES e in caso di diniego occorrerà presentare un ricorso tributario con cui chiedere il riconoscimento del diritto al rimborso chiedendo l’applicazione dell’art. 21del D. Lgs. n. 546/1992 in ordine al termine di decadenza, essendo l’incostituzionalità della norma già dichiarata dalla Corte Costituzionale.
  • Anni dal 2013 al 2015. Per la maggiore IRES degli anni 2013, 2014, 2015 e i maggiori acconti dell’IRES dell’anno 2016 – pagati a seguito dell’indeducibilità IMU sui fabbricati – il contribuente deve presentare un’istanza di rimborso ai fini IRES. In caso di diniego da parte dell’Agenzia delle Entrate, occorrerà presentare un ricorso tributario con cui chiedere il riconoscimento del diritto al rimborso IRES chiedendo la diretta “disapplicazione” della norma che vieta la deducibilità dell’IMU.

ESEMPI

  • Anni dal 2012 al 2016. Per la maggiore IRAP dell’anno 2012, 2013, 2014, 2015 e maggiori acconti dell’IRAP dell’anno 2016 – pagati a seguito dell’indeducibilità IMU sui fabbricati –  il contribuente deve presentare un’istanza di rimborso ai fini IRAP. In caso di diniego da parte dell’Agenzia delle Entrate, occorrerà presentare un ricorso tributario con cui chiedere il riconoscimento del diritto al rimborso IRAP chiedendo la diretta “disapplicazione” della norma che vieta la deducibilità dell’IMU. Lo stesso per quanto riguarda il maggior saldo dell’IRAP dell’anno 2016.
  • Anni dal 2017 al 2019. Per quanto riguarda il maggior saldo IRAP degli anni 2017, 2018 e 2019, il contribuente dovrà richiedere al giudice tributario il riconoscimento del diritto al rimborso chiedendo la “disapplicazione” della norma che vieta la deducibilità dell’IMU ai fini IRAP.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Se hai necessità di predisporre un’istanza di rimborso ai fini IRES e IRAP, per recuperare l’IMU corrisposta sui fabbricati strumentali considerata indeducibile, compila il form di contatto qui sotto.

Quadro RW: chi deve compilarlo?

La compilazione del quadro RW assolve ad una specifica funzione: quella di comunicare all’Amministrazione Finanziaria i redditi prodotti all’estero da parte di taluni soggetti.

In questo articolo cercheremo di dare alcune istruzioni e spiegare come tale quadro deve essere compilato ai fini di un’ottimizzazione del monitoraggio fiscale di tali attività e/o patrimoni esteri.

1. Cos’è il modello o quadro RW?

Le persone fisiche che hanno la residenza fiscale in Italia, le società semplici, gli enti non aventi come oggetto esclusivo un’attività commerciale detenenti investimenti di patrimonio all’estero o attività finanziarie che producono reddito in Italia devono compilare il quadro RW del modello Redditi (ex Unico).

Trattasi di un particolare quadro della dichiarazione dei redditi relativa alle persone fisiche ed enti non commerciali, da compilare in determinati casi specifici.

Il quadro RW del modello Redditi ha l’obiettivo di consentire all’Amministrazione Finanziaria il monitoraggio fiscale di determinati proventi da assoggettare a tassazione in Italia.

Esso serve anche per la determinazione delle due relative imposte patrimoniali:

  • IVIE – Imposta sugli immobili detenuti all’estero;
  • IVAFE – Imposta sulle attività finanziarie detenute all’estero.

2. Come funziona il quadro RW del modello redditi?

Il quadro RW modello unico deve essere trasmesso con la dichiarazione dei redditi, che deve essere inviata per via telematica entro il 30 novembre dell’anno successivo rispetto alla chiusura del periodo di imposta.

È importante evidenziare che l’obbligo del monitoraggio non deve essere effettuato per i depositi e per i conti correnti bancari avviati all’estero il cui valore massimo complessivo non superi, durante il periodo d’imposta, i 15.000 euro.

Rimane, comunque, l’obbligo di compilare il quadro quando sia da versare l’IVAFE.

3. Chi è tenuto a compilare il modulo RW?

I soggetti con residenza fiscale in Italia sono obbligati a seguire la normativa sul monitoraggio fiscale ove questi – durante il periodo d’imposta – possiedano investimenti patrimoniali o finanziari all’estero.

I soggetti aventi obbligo di adempiere alla disciplina prevista per il monitoraggio fiscale sono:

  • Persone fisiche, privati e soggetti con partita IVA;
  • Enti non commerciali;
  • Società semplici;
  • Enti simili alle società semplici;
  • Enti o istituzioni di previdenza obbligatoria.

4. Quali sono i soggetti esonerati dalla compilazione del quadro RW?

Comunque, vi è anche la possibilità che alcuni soggetti siano esonerati dalla compilazione del quadro RW del modello redditi. Sul punto indicazioni sono contenute nella circolare n. 38/E/2013 dell’Agenzia delle Entrate.

I soggetti esonerati dalla compilazione del quadro RW sono:

  • le società di capitali;
  • gli enti commerciali;
  • le società a nome collettivo;
  • le società che possono svolgere sia attività commerciale che non commerciale (SAS).

Esoneri soggettivi

L’articolo 38, comma 13, del D.L. n. 78/10 prevede l’esonero dalla disciplina del monitoraggio di alcuni soggetti con residenza fiscale in Italia perché:

  • vi sono delle disposizioni di legge;
  • vi sono alla base degli accordi internazionali.

Sono esonerati dal monitoraggio fiscale quindi:

  • società di capitali e di persone (con l’eccezione delle società semplici);
  • enti commerciali;
  • enti pubblici;
  • organismi con attività di investimento collettivo del risparmio;
  • fondi immobiliari soggetti a un regime di non imponibilità;
  • forme pensionistiche complementari soggette a un fiscalità sostitutiva;
  • persone fisiche che lavorano all’estero per lo Stato italiano o per organizzazioni internazionali a cui aderisce lo stato italiano;
  • persone con residenza fiscale in Italia determinata da accordi internazionali ratificati;
  • persone fisiche che lavorano continuativamente in zone di frontiera e Paesi limitrofi all’Italia. Essi dovranno compilare il modello RW in qualità di frontalieri.

Esoneri oggettivi

La normativa ha previsto anche casi in cui l’esonero sia di natura oggettiva, legato alle tipologie di detenzione o proprietà dei beni esteri.

La circolare n. 38/E/2013 ha ben specificato che, in base anche all’art. 4 comma 3 del D.L. n. 167/1990, come modificato dalla Legge n. 97/2013, non occorre dichiarare nel quadro RW:

  • le attività patrimoniali e finanziarie date in gestione o in amministrazione a soggetti terzi finanziari con residenza;
  • contratti che hanno prodotto redditi di natura finanziaria risolti con l’azione di intermediari finanziari residenti;
  • le attività patrimoniali e finanziarie i cui redditi sono incassati attraverso intermediari residenti.

Tali esoneri possono ritenersi validi quando i flussi finanziari derivanti da tali attività siano soggetti a ritenuta o imposta sostitutiva da parte degli intermediari con residenza.

5. Quali sono le attività estere da indicare nel quadro RW?

Vi sono due principali attività estere da indicare nel quadro RW: patrimoniali e finanziarie.

Per attività patrimoniali si intendono tutti quei beni che fungono da patrimonio all’estero posseduti da contribuenti residenti in Italia. Essi sono:

  • immobili posseduti all’estero;
  • oggetti preziosi;
  • opere d’arte;
  • imbarcazioni o altri beni mobili posseduti o registrati all’estero.

Affinché vi sia l’obbligo di dichiarazione dobbiamo essere in presenza di una capacità abbastanza proficua di produzione di reddito. Dette attività patrimoniali devono essere dichiarate nel quadro RW anche se non producono un effettivo reddito durante un dato periodo d’imposta.

Per attività finanziarie intendiamo invece quelle attività da cui derivano redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria estera.

Esse sono:

  • depositi e conti correnti bancari originati all’estero;
  • conti correnti valutari;
  • criptovalute;
  • metalli preziosi posseduti all’estero;
  • le attività e gli investimenti detenuti all’estero attraverso soggetti che si trovano in paesi diversi da quelli collaborativi;
  • entità giuridiche italiane o all’estero, diverse dalle società, nel caso in cui il contribuente risulti essere l’effettivo titolare;
  • la partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti non aventi residenza;
  • le obbligazioni estere o titoli similari, i titoli pubblici e i titoli equiparati emessi all’estero, i titoli non rappresentativi di merce e i certificati di massa emessi da non residenti;
  • i diritti all’acquisto o sottoscrizione di azioni estere;
  • i contratti di natura finanziaria stretti con controparti non aventi residenza;
  • i contratti derivati e altri rapporti finanziari sottoscritti al di fuori dello stato italiano;
  • le forme di previdenza complementari gestite da soggetti esteri, escludendo quelle con obbligo di legge;
  • le polizze di assicurazione sulla vita e quelle di trasformazione del risparmio in reddito;
  • le attività finanziarie italiane possedute all’estero;
  • le attività finanziarie estere detenute in Italia al di là del circuito intermediario degli aventi residenza;

6. Nessun obbligo di monitoraggio fiscale e quadro RW per un protector di un trust residente all’estero

La persona fisica avente residenza in Italia e avente la funzione di protector (in italiano “guardiano”) di un trust con residenza estera, con un patrimonio esclusivamente esistente all’estero, non ha obblighi di monitoraggio fiscale in Italia.

L’Agenzia delle Entrate è pervenuta a tali conclusioni nella risposta a interpello n. 506 del 30 ottobre 2020.

In tale chiarimento, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il protector ha solo un potere atto a controllare le azioni del trustee (persona fisica o giuridica). Infatti, il suo operato era esercitato tramite un preventivo e obbligatorio consenso che il trustee era tenuto a ottenere dal guardiano per esercitare i poteri discrezionali attribuitigli dall’atto di trust (istituto con cui si costituisce il patrimonio). Quindi, il protector non può essere preso in considerazione come “titolare effettivo” del trust e, perciò, non è soggetto al monitoraggio.

L’Amministrazione Finanziaria ci ricorda che la disciplina sul monitoraggio fiscale ha lo scopo di assicurare un giusto e corretto pagamento degli obblighi relativi alle imposte collegato a stretto giro con investimenti all’estero e con attività estere finanziarie da parte di taluni soggetti residenti.

L’obbligo di monitoraggio, pertanto, sussiste quando siamo in presenza di una relazione giuridica tra il soggetto e le attività estere oggetto di dichiarazione. Quindi, l’obbligo sussiste non solo per i titolari delle attività detenute all’estero, ma anche per chi ha la disponibilità o la possibilità di movimentarle.

Quindi, il protector di un trust è una figura che non gode né dei redditi né del patrimonio del trust. Di solito, infatti, è un soggetto avente un ruolo:

  • di indirizzo dell’operato del trustee, cioè sostenere il trustee nel comprendere la totalità del programma stabilito dal disponente nell’atto d’istituzione del trust;
  • di garanzia per il patrimonio vincolato all’interno del trust, controllando anche l’operato del trustee e autorizzandone gli atti più importanti. Pertanto, è un soggetto che non ha alcun nesso e competenza nei confronti della titolarità e disponibilità del patrimonio oggetto di gestione da parte del trustee.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti compila il form di contatto qui sotto. 

Soggetto passivo IVA

Soggetto passivo IVA: quando alla holding è concesso l’esercizio della detrazione IVA!

Il soggetto passivo IVA può essere definito come quel soggetto che svolge un’attività economica ai fini IVA, effettuando cessioni di beni e prestazioni di servizi per cui deve essere applicata l’IVA.

1. Soggetti passivi IVA chi sono?

La disciplina che regolamenta la soggettività passiva IVA è contenuta a livello comunitario nell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE.

Tale norma definisce soggetti passivi IVA chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività economica. Si tratta in particolare delle attività:

  • di produttore;
  • di commerciante;
  • di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle delle professioni liberali o assimilate.

Si considera anche attività economica lo sfruttamento di un bene per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità (art. 9, paragrafo 2, della direttiva).

L’ordinamento italiano considera soggetto passivo IVA:

  • i soggetti che svolgono attività imprenditoriali (cfr. l’articolo 4 del dpr 633 72);
  • le attività professionali e artistiche (cfr. l’articolo 5 del dpr 633 72).

In base all’articolo 4, primo comma, del dpr 633 72, la soggettività passiva prevista per gli esercenti imprese è verificata quando si è in presenza

  • delle attività commerciali di cui all’articolo 2195 del codice civile oppure
  • di altre attività organizzate in forma d’impresa.

In base all’articolo 4, quarto comma, del dpr 633 72, tuttavia, gli enti non commerciali sono soggetti passivi IVA solo per le attività commerciali che pongono in essere, a nulla rilevando l’organizzazione in forma d’impresa.

Per quanto riguarda l’esercizio di arti e professioni, la normativa considera l’esercizio di una professione abituale di qualsiasi forma di attività autonoma da parte di persone fisiche o di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica. La norma esclude da tale definizione i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e le attività reseda associati nell’ambito dei contratti di associazione in partecipazione, rese da soggetti che non esercitano per professione abituale altre attività di lavoro autonomo.

2. Una holding è un soggetto passivo IVA?

È importante sottolineare che – sulla base della lettera b del comma 5 dell’articolo 4 del dpr 633 72 – l’acquisto e la detenzione di partecipazioni da parte di una holding non costituisce esercizio di attività economica ai fini IVA.

L’articolo 4, quinto comma, del dpr 633 72 esclude che esercitino attività commerciale – non avendo quindi i requisiti per essere considerati soggetti passivi IVA – quei soggetti la cui unica attività è quella di detenere attività finanziarie non strumentali, né accessorie, ad altre attività esercitate. Occorre evidenziare al riguardo che per mero possesso di attività finanziarie si considera la detenzione di partecipazioni in altre società senza che la holding appunto interferisca nella gestione delle società partecipate. Si verifica  interferenza ove la holding compia “operazioni soggette a IVA, quali la prestazione di servizi amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici” nei confronti delle partecipate (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 17 ottobre 2018, C-249/17).

La Corte di Giustizia ha ritenuto ad esempio la locazione di un immobile effettuato da una holding ad una società controllata come una forma di interferenza nella gestione di quest’ultima. Inoltre, ha ritenuto la stessa un’attività economica che fa sorgere il diritto alla detrazione dell’IVA sulle spese sostenute per l’acquisto delle partecipazioni (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 5 luglio 2018, C‑320/17).

Occorre infine evidenziare che se le partecipazioni sono detenute da una fondazione, quest’ultima può essere considerata un soggetto IVA se, oltre alla mera detenzione delle partecipazioni stesse, effettua un’interferenza nella gestione delle società partecipare svolgendo nei confronti di queste ultime servizi soggetti a IVA (cfr. la risposta a istanza di interpello dell’Agenzia delle Entrate 12 giugno 2019, n. 187).

3. Soggetto passivo IVA e detrazione IVA: come funziona?

Quando un determinato contribuente può essere considerato, per quanto sopra detto, un soggetto passivo IVA, derivano certe conseguenze agli effetti dell’IVA.

soggetti IVA possono infatti portare in detrazione l’IVA per gli acquisti di beni e le prestazioni di servizi effettuate (la cd. IVA  credito).

Per quanto concerne l’esercizio alla detrazione IVA, la normativa comunitaria – contenuta nell’articolo 168 della direttiva 2006/112/CE – stabilisce che il soggetto passivo IVA può esercitare il diritto alla detrazione IVA per cui è debitore in relazione ai beni e ai servizi acquistati, ove questi siano stati impiegati nell’attività esercitata dal soggetto passivo IVA. Secondo la Corte di Giustizia (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 29 ottobre 2009, C-29/08), affinché il soggetto passivo IVA possa portare in detrazione l’IVA relativa ai beni e servizi acquistati è necessario che tali costi rappresentino una parte del prezzo del bene o del servizio reso da tale soggetto.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, ciò che occorre appurare è l’esistenza di una forma di nesso tra l’operazione di acquisto effettuata dai soggetti passivi IVA e la cessione di beni e/o la prestazione di servizi effettuata da tale soggetto a valle, fondamentale per consentire la detrazione dell’IVA sugli acquisti effettuati. Sempre secondo la giurisprudenza comunitaria, per stabilire se è possibile per il contribuente procedere con la detrazione dell’IVA occorre considerare tutte le circostanze in cui si sono svolte le operazioni dal punto di vista oggettivo (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 21 febbraio 2013, C‑104/12). In sostanza, non potrà esercitarsi il diritto alla detrazione IVA addebitata con la rivalsa IVA, qualora sulla base delle circostanze che caratterizzano il caso concreto emergesse una mancanza di correlazione tra l’IVA sugli acquisti e l’IVA applicata a valle.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti compila il

Omessa dichiarazione dei redditi: sanzioni e prescrizione!

Omessa dichiarazione dei redditi: le sanzioni, la prescrizione del reato e termini di accertamento!

I soggetti passivi di imposta devono presentare la dichiarazione dei redditi nel rispetto di determinate scadenze, configurandosi in assenza di tale adempimento un caso di omessa dichiarazione dei redditi.

Come vedremo, l’omessa dichiarazione costituisce una fattispecie che comporta l’applicazione di sanzioni amministrative e in alcuni casi di sanzioni penali ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000.

1. Mancata presentazione dichiarazione dei redditi: sanzioni amministrative

Le sanzioni amministrative previste nei casi di omessa dichiarazione variano dal 120 al 240 per cento (art. 1 comma 1 del decreto legislativo n. 471 del 1997).

Qualora tale violazione venga posta in essere per più anni di imposta, la sanzione verrà determinata sulla base delle regole previste nell’articolo 12 del dlgs n. 472 del 1997.

2. Quando si configura il reato?

Il reato di omessa dichiarazione si configura quanto il contribuente – persona fisica o società – a seguito della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi evade imposte per un importo superiore a 50.000,00 euro.

La Corte di Cassazione ha stabilito nella sentenza n. 36491/2019 che il giudice, per determinare il superamento della soglia che fa scattare il reato tributario, può legittimamente fondare il proprio convincimento sull’accertamento fiscale operato dall’Amministrazione finanziaria, a condizione che proceda ad un’autonoma valutazione degli elementi confrontandoli con altri eventualmente acquisiti.

L’art. 5 del d.lgs. 74 2000 prevede in tal caso l’applicazione di una pena detentiva che varia dai 2 a 5 anni. Alla medesima pena detentiva soggiace anche il sostituto di imposta che, essendo obbligato alla presentazione della dichiarazione dei sostituti di imposta, non vi provvede.

È importante notare che non si è in presenza di omessa dichiarazione dei redditi se la dichiarazione:

  • è presentata entro 90 giorni dalla scadenza del termine;
  • non è stata sottoscritta;
  • non è redatta su uno stampato conforme al modello prestabilito.

3. Omessa dichiarazione: un reato con dolo specifico

Il reato di omessa dichiarazione dei redditi è un reato omissivo proprio a dolo specifico.

Ciò significa che tale reato si configura quando all’omissione concernente il mancato invio della dichiarazione si associa l’intenzione di evadere le imposte.

A tal proposito significativa è la sentenza della Corte di Cassazione n. 16469 del 29 maggio 2020 che ha chiarito che anche se il contribuente si affida ad un professionista per l’invio della dichiarazione, la responsabilità per l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi ricade comunque sul contribuente se questi ha agito consapevolmente allo scopo di evadere le imposte.

Il contribuente è sempre tenuto a controllare che il commercialista adempia correttamente agli obblighi dichiarativi. Nella fattispecie in esame, però, non vi erano elementi riconducibili ad una responsabilità del professionista per l’omessa dichiarazione.

La Suprema Corte ha evidenziato che la prova del dolo specifico non è dimostrata dalla semplice violazione dell’obbligo dichiarativo o dalla mancata vigilanza sull’operato del professionista, bensì dalla sussistenza di elementi di fatto che provano la volontà del contribuente di commettere l’evasione fiscale.

Il reato di omessa dichiarazione prevede anche una serie di pene accessorie elencate all’art.12 del dlgs. n. 74 del 2000.

È importante notare che al reato di omessa dichiarazione non si applica l’istituto della sospensione condizionale della pena se ricorrono contemporaneamente le seguenti condizioni:

  • l’ammontare dell’imposta evasa è superiore al 30 per cento del volume d’affari;
  • l’ammontare dell’imposta evasa è superiore a tre milioni di euro.

4. Come risolvere con il ravvedimento operoso

Non si configura sotto il profilo penale il reato di omessa dichiarazione se il contribuente paga integralmente il debito tributario, comprese sanzioni e interessi (art. 13 del D. Lgs. n. 74/2000).

Il pagamento delle imposte può essere effettuato attraverso il ravvedimento operoso del contribuente oppure inviando la dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa all’anno successivo.

Il ravvedimento operoso, in particolare, permette al contribuente di regolarizzare la propria posizione, pagando i versamenti omessi e beneficiando di una riduzione delle sanzioni previste.

Il contribuente, però, deve provvedere al ravvedimento o alla presentazione della dichiarazione prima di essere venuto a conoscenza di attività di accertamento o dell’avvio del procedimento penale.

È concessa, inoltre, la possibilità al contribuente di estinguere il proprio debito nei confronti del fisco attraverso la rateizzazione dell’importo.

5. Prescrizione del reato

Il reato di omessa dichiarazione si estingue per prescrizione in 8 anni che decorrono dalla data di “consumazione” del reato, quindi dal suo perfezionamento.

In caso di atti interruttivi della prescrizione il reato di omessa dichiarazione si estingue decorsi 10 anni.

È importante evidenziare che nei reati tributari la prescrizione è interrotta anche dal verbale di constatazione delle violazioni redatto dalla polizia giudiziaria e dall’atto di accertamento delle violazioni inviato dal fisco (art. 17 D.lgs. 74 2000)

Per quanto riguarda la data di consumazione del reato, essa coincide con lo scadere dei 90 giorni ulteriori concessi al contribuente per inviare la dichiarazione, se questi non l’ha presentata nel termine ordinario.

A tale proposito la Corte di Cassazione ha chiarito nella sentenza n. 8340 del 2 marzo 2020 che i 90 giorni sono un ulteriore termine concesso dalla legge al contribuente per adempiere e non equivalgono a una causa di non punibilità (di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente).

Alla luce di ciò e nel ribadire che il reato di omessa dichiarazione si consuma alla scadenza degli ulteriori 90 giorni come anzidetto, la suprema Corte ha chiarito che la prova in giudizio del mancato invio della dichiarazione nel termine indicato spetta al Pubblico Ministero e non al contribuente.

6. Reato di omessa dichiarazione dei redditi e possibile deduzione dei costi non contabilizzati

In merito al reato di omessa dichiarazione è da segnalare la recente sentenza della Cassazione n. 10382 del 2021.

La fattispecie analizzata dalla suprema Corte riguarda il caso di un amministratore di società, che non aveva presentato la dichiarazione dei redditi e la dichiarazione IVA al fine di evadere le imposte. Nell’ambito della verifica fiscale e anche in sede di giudizio penale era emerso, però, che non erano stati registrati in contabilità dei costi sostenuti dalla società.

La Corte di Cassazione ha escluso la rilevanza penale dell’omessa dichiarazione dei redditi in considerazione del fatto che, qualora fossero stati dedotti tali costi non registrati, l’ammontare dell’imposta evasa sarebbe stata inferiore alla soglia di euro 50.000 che configura il reato. Pertanto, era stata esclusa la responsabilità penale per l’amministratore con riferimento all’omessa dichiarazione dei redditi. Atteso che il principio della deducibilità dei costi sostenuti e non riportati in contabilità non rileva, però, ai fini IVA, veniva confermata la responsabilità penale dell’amministratore per l’omessa dichiarazione IVA, dato che la soglia di punibilità risultava in questo caso superata.

7. Omessa dichiarazione dei redditi: i termini di accertamento

Nelle ipotesi di omessa dichiarazione dei redditi, l’Agenzia delle Entrate può emettere un accertamento fiscale entro il settimo anno successivo rispetto a quello in cui si sarebbe dovuta presentare la dichiarazione dei redditi omessa.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti o di una consulenza fiscale compila il form

Stabile organizzazione IVA: territorialità e fattura elettronica

Stabile organizzazione IVA: territorialità IVA, adempimenti fiscali e fatturazione elettronica.

La stabile organizzazione IVA è una delle tre modalità con cui un soggetto passivo IVA non residente può identificarsi in Italia ai fini di tale imposta.

Il soggetto passivo IVA estero può identificarsi in Italia anche mediante l’identificazione diretta ovvero tramite il cd rappresentante fiscale, argomenti che affronteremo in questa sede solo in modo marginale.

È importante notare che la presenza di una stabile organizzazione comporta l’assolvimento degli obblighi formali e sostanziali (liquidazione dell’IVA, versamento dell’IVA, fatturazione elettronica, etc.) prescritti dalla normativa contenuta nel dpr 633 72.

1. Definizione di stabile organizzazione IVA

La definizione di stabile organizzazione IVA è diversa dalla definizione di stabile organizzazione prevista ai fini delle imposte dirette. Ai fini delle imposte sul reddito, infatti, affinché si configuri una stabile di un soggetto non residente, lo stesso deve operare nel nostro Paese in maniera continuativa e significativa con:

  • una sede fissa di affari,
  • oppure attraverso persone che agiscono per conto dell’impresa (art. 162 TUIR).

La società estera, quindi, può esercitare la sua stabile attività economica in Italia alternativamente o con una sede fissa per mezzo di persone (ad esempio un agente dipendente).

Ai fini IVA, invece, un’impresa estera esercita la sua attività economica in Italia con una stabile organizzazione se ha un grado sufficiente di permanenza sul territorio, con la contemporanea presenza di una dotazione tecnica e una dotazione umana che le permettono di operare.

Questa definizione contenuta nell’art. 11 del regolamento UE n. 282/2011 ci permette di capire che ai fini IVA l’attività dell’impresa estera deve essere presente stabilmente nel territorio italiano con la compresenza di risorse umane e tecniche.

Per potersi configurare una stabile organizzazione IVA è quindi in definitiva necessario:

  • un sufficiente grado di stabilità;
  • una struttura in cui operano risorse umane e in cui sono presenti dotazioni tecniche;
  • un’autonomia operativa.

Ciò è da escludere quando le operazioni realizzate servono per preparare l’attività di impresa della casa madre estera o sono di ausilio a quest’ultima.

Un esempio è quello di un centro di attività in cui ci si occupa di assumere personale per l’impresa estera o di acquistare strumenti tecnici per lo svolgimento delle attività dell’impresa.

2. Stabile organizzazione IVA e territorialità IVA: esempi

Perché è così importante sapere se un soggetto estero ha una stabile organizzazione IVA in Italia?

È così importante perché la territorialità dell’operazione di acquisto o di vendita effettuata da una società italiana con il soggetto passivo IVA estero muta a seconda che la stabile organizzazione IVA di tale soggetto partecipi o meno all’operazione.

Se, quindi, con la tua società hai acquistato un bene o un servizio da un soggetto passivo IVA comunitario e vuoi scoprire se hai ricevuto la fattura in modo corretto guarda questi esempi.

La regola da seguire, sulla base dell’articolo 192-bis della direttiva IVA, degli articoli 53 e 54 del regolamento n. 282 del 2011 e dell’articolo 7 ter del dpr 633 72, è descritta negli esempi che seguono.

Esempio n. 1

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione IVA in Italia che non partecipa all’operazione.

Il servizio è territorialmente rilevante in Italia ai sensi dell’articolo 7 ter del dpr 633 72.

In questo caso, la società italiana A riceverà dalla società tedesca  B una fattura senza IVA che dovrà integrare mediante il meccanismo del reverse charge.

Esempio n. 2

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione IVA in Italia che fornisce esclusivamente servizi di supporto amministrativo nell’ambito dell’operazione.

In questo caso, l’intervento della stabile organizzazione non è essenziale alla casa madre tedesca per rendere il servizio e non viene quindi considerato ai fini della territorialità IVA (art. 53 del regolamento n. 282 del 2011).

Il servizio è territorialmente rilevante in Italia ai sensi dell’articolo 7-ter del dpr 633 72.

In questo caso, la società italiana A riceverà dalla società tedesca una fattura senza applicazione dell’imposta  che dovrà integrare mediante il meccanismo del reverse charge.

Esempio n. 3

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione in Italia che partecipa all’operazione fornendo i mezzi tecnici o umani e dando un contributo essenziale per la realizzazione del servizio reso dalla casa madre tedesca.

In tal caso, al servizio in oggetto si applica l’IVA italiana.

La società italiana A riceverà dalla stabile organizzazione in Italia del soggetto tedesco una fattura con IVA italiana e con il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato italiano.

  • Esempio n. 4

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione IVA in Italia che partecipa all’operazione fornendo esclusivamente servizi di supporto amministrativo.

In questo caso, la società italiana A dovrebbe ricevere dalla società tedesca B una fattura senza IVA – che dovrebbe integrare mediante il meccanismo del reverse charge – ma riceve la fattura dalla stabile organizzazione in Italia con IVA italiana.

In questo caso, il servizio si presume reso dalla stabile organizzazione italiana del soggetto estero (art. 53 del regolamento n. 282 del 2011).

  • Esempio n. 5

La società italiana A acquista un servizio dalla società X, stabile organizzazione in Italia della società tedesca Y.

In questo caso, la società X – stabile organizzazione in Italia della società tedesca Y – deve emettere una fattura con IVA italiana e con partita IVA italiana nei confronti della società italiana A.

3. Stabile organizzazione IVA: cessioni di beni

Le medesime casistiche, con le relative differenze, possono in linea di massima ritenersi applicabili anche nei casi di cessioni di beni.  

Ove la stabile organizzazione del soggetto non residente effettui cessioni di beni nei confronti di un soggetto IVA stabilito in Italia, la stessa dovrà emettere fattura elettronica con IVA, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, dpr 633 72.

4. Stabile organizzazione in Italia adempimenti

La stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente è soggetta agli stessi adempimenti cui sono tenuti gli altri soggetti passivi IVA. Essa, in particolare, deve:

  • tenere le scritture contabili obbligatorie;
  • effettuare la liquidazione IVA;
  • emettere fattura elettronica;
  • presentare Intrastat ed esterometro (ove previsto);
  • presentare la dichiarazione IVA e le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette (IRES e IRAP).

5. Identificazione diretta e rappresentante fiscale

Se l’impresa non residente non ha una stabile organizzazione IVA in Italia deve identificarsi ai fini I.V.A. nel nostro Stato attraverso due modalità:

  • attraverso una identificazione diretta;
  • oppure tramite un rappresentante fiscale residente nel territorio dello Stato.

L’impresa non residente che vuole operare attraverso identificazione diretta deve fare apposita dichiarazione all’Ufficio competente prima di effettuare le operazioni.

La dichiarazione deve contenere gli elementi riportati all’art. 35-bis del dpr 633 72. L’ufficio attribuisce un numero di partita IVA. al richiedente che deve essere indicato nella dichiarazione IVA e, quando richiesto, negli altri atti.

Se l’impresa estera si avvale, invece, di un rappresentante fiscale questi risponde in solido con l’impresa rappresentata degli obblighi che derivano dall’applicazione delle norme IVA. Inoltre, la sua nomina deve essere comunicata all’altro contraente prima dello svolgimento dell’operazione.

Inquadrare la tua attività economica all’interno del nostro Stato è fondamentale per applicare correttamente la normativa fiscale in materia di IVA e per effettuare i relativi adempimenti.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Alla fine, se hai bisogno di maggiori chiarimenti o di una consulenza fiscale compila il form di contatto.