Mese: Settembre 2022

Interposizione fittizia in ambito tributario: 3 esempi!

Interposizione fittizia di società e interposizione fittizia di persona: i profili fiscali!

Quando un soggetto – titolare di redditi da assoggettare tassazione – trasferisce formalmente tali redditi ad un altro soggetto, con l’intento di fare apparire quest’ultimo agli occhi dell’Amministrazione Finanziaria come l’effettivo percipiente degli stessi, si realizza la c.d. interposizione fittizia in ambito tributario.

Più nello specifico, l’interposizione fittizia si realizza quando un soggetto chiamato interponente – che  il è titolare effettivo del reddito– attraverso una serie di atti giuridici sostituisce sé stesso, nell’ambito di detti redditi, con un altro soggetto (il cosiddetto interposto o prestanome).

1. Interposizione fittizia: 3 esempi

L’interposizione fittizia realizza una scissione tra il titolare effettivo di redditi e il titolare apparente. Vediamo alcuni esempi.

Esempio n. 1

Un esempio classico è quello di un contribuente persona fisica che appare al Fisco come socio unico di una s.r.l., ma che in realtà “presta il suo nome” ad un altro soggetto che è invece il socio principale di tale società (si tratta dell’interposizione fittizia di persona).

Esempio n. 2

Un altro esempio classico è quello di una persona fisica che appare al Fisco come amministratore o socio unico della società X s.r.l., ma che in realtà funge da prestanome ad un altro soggetto che è invece il vero amministratore o socio della società e che intende deresponsabilizzarsi in caso di verifica fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Esempio n. 3

Si pensi ad una persona fisica che ha acquistato in un dato comune una unità immobiliare per cui ha usufruito delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa, ma che in realtà funge da soggetto interposto ad un’altra persona fisica che ha già usufruito in quel dato comune delle medesime agevolazioni e che quindi non può più utilizzarle (anche qui si tratta dell’interposizione fittizia di persona).

Affinché possa concretizzarsi l’interposizione fittizia è necessario un accordo tra interposto e interponente, allo scopo di sottrarre quest’ultimo alla normativa fiscale e dai relativi obblighi.

L’interposizione fittizia può essere ricondotta nell’ambito dell’istituto giuridico della simulazione relativa, considerando che il fisco è, ovviamente, parte estranea all’accordo simulatorio. Ciò significa che l’accordo non può essere utilizzato con l’Amministrazione Finanziaria il cui scopo è invece quello di individuare il corretto soggetto percipiente del redito prodotto.

2. Controlli dell’Amministrazione Finanziaria

Se l’interposizione fittizia viene realizzata in ambito fiscale, l’ordinamento tributario – attraverso l’art. 37 DPR 600/1973 – attribuisce all’Agenzia delle Entrate la possibilità di imputare agli effettivi contribuenti i redditi di cui appaiono titolari invece altri soggetti.

L’Amministrazione Finanziaria, in sede di rettifica e accertamento d’ufficio delle dichiarazioni dei redditi, può correttamente ricondurre i redditi imputati al contribuente apparente in capo all’effettivo contribuente titolare di tali redditi.

È opportuno ricordare, inoltre, che il Fisco può assolvere ai propri compiti di controllo del rispetto della normativa fiscale anche attraverso l’esecuzione di accessiispezioni e verifiche.

L’attribuzione del reddito al reale titolare avviene mediante l’utilizzo di presunzioni gravi, precise e concordanti.

È importante evidenziare che è consentita la possibilità al contribuente di richiedere un parere all’Amministrazione Finanziaria per verificare se le disposizioni in questione si applichino alla propria specifica situazione.

3. Rimborso delle imposte già versate dall’interposto

Può accadere che il soggetto interposto abbia già pagato le imposte relative ai redditi che sono stati poi imputati all’interponente a seguito dei controlli operati dal fisco.

L’art. 37 DPR 29 settembre 1973 n. 600, prevede la possibilità per l’interposto di richiedere il rimborso di quanto versato, previa prova del pagamento effettuato.

L’Agenzia delle Entrate procederà al rimborso dopo l’avvenuta definizione dell’accertamento ed in misura non superiore all’imposta percepita.

4. Interposizione fittizia e interposizione reale

Nell’interposizione reale l’interposto si comporta come il reale contraente, trasferendo in periodo successivo all’interponente i diritti scaturiti dal contratto.

L’interposizione reale presuppone, quindi, un accordo tra interposto e interponente.

L’interposto, in virtù di tale accordo, risulta l’effettivo contraente ed è destinatario degli effetti del contratto. Obbligandosi a trasferire tali effetti all’ interponente con un ulteriore atto.

Le operazioni poste in essere dall’interposto sono, dunque, effettive reali e volute.

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ravvisabile anche nell’ambito dell’interposizione reale un fine elusivo della normativa fiscale.

La Corte di Cassazione ha chiarito che per integrare un comportamento elusivo è sufficiente un uso improprio, non giustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico (cfr. le sentenze della Corte di Cassazione n. 21794/2014 e n. 26445/2018).

La Suprema Corte ha statuito che rileva anche il carattere reale e non simulato di una sequenza negoziale, se permette di superare il regime fiscale (cfr. la sentenza della Corte di Cassazione n. 5408 del 2017).

5. Elusione fiscale o abuso del diritto

Qualora l’Amministrazione Finanziaria non riesca a fornire la prova della realizzazione dell’interposizione fittizia attraverso l’utilizzo di presunzioni, la stessa ha comunque la possibilità di contestare al contribuente di aver posto in essere un abuso del diritto (o elusione fiscale).

La definizione normativa dell’abuso del diritto è contenuta nell’art. 10 bis Legge del 27/07/2000 n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). Tale norma attribuisce la possibilità all’Amministrazione Finanziaria di disconoscere operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

L’abuso del diritto è un modo di conseguire un vantaggio fiscale indebito attraverso il formale corretto rispetto della normativa fiscale.

Non ci troviamo in presenza di abuso del diritto quando le operazioni sono giustificate da valide ragioni extrafiscali realizzate per migliorare l’impresa o l’attività professionale.

In ogni caso è concessa la possibilità al contribuente di proporre interpello per verificare se la sua condotta rientri in un’ipotesi di abuso del diritto.

6. Interposizione fittizia di società

L’interposizione fittizia può realizzarsi anche quando l’interposto è rappresentato da una società.

L’attribuzione della titolarità dei redditi ad una società in luogo dell’effettivo titolare persona fisica può essere vantaggiosa per l’interponente in termini fiscali.

L’imposizione fiscale sul reddito delle persone fisiche, infatti, risulta più onerosa rispetto a quella gravante sulle società.

È quanto ha chiarito l’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 89/2020.

In tale risoluzione l’Agenzia delle Entrate ha analizzato il caso di un contribuente, già amministratore di due società, che aveva costituito una nuova società, di cui era amministratore unico e alla quale conferiva l’amministrazione delle due succitate società.

Il contribuente persona fisica, dunque, continuava ad amministrare le due società, per il tramite della nuova società da lui costituita.

La nuova società costituita fungeva, pertanto, da realtà interposta, occultando l’effettivo titolare, ossia la persona fisica interponente.

Attraverso questo meccanismo, i redditi delle due società non figuravano tra i redditi del contribuente persona fisica, con evidenti vantaggi dal punto di vista fiscale.

Nel caso di specie l’Agenzia delle entrate ha correttamente ricondotto i redditi della società interposta all’effettivo titolare persona fisica.

La tematica dell’interposizione fittizia è complessa e trasversale, potendo essere realizzata anche attraverso società fiduciarietrust e con interposti situati all’estero.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni espresse non necessariamente siano applicabili al tuo caso concreto.

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Stabile organizzazione di impresa: aspetti fiscali!

Stabile organizzazione in Italia, stabile organizzazione personale e stabile organizzazione occulta!

Se hai un’impresa all’estero e vuoi esercitare la tua attività anche in Italia devi necessariamente conoscere il concetto di stabile organizzazione per verificare se rientri in questa fattispecie e come devi comportarti dal punto di vista fiscale.

Puoi esercitare la tua attività in Italia non solo se stabilisci una sede fisica nel nostro Stato, ma anche se operi mediante persone che agiscono per conto della tua impresa estera.

Allo stesso modo se hai un’impresa in Italia e svolgi la tua attività economica in uno stato estero devi verificare se come stai operando in tale Stato.

1. La definizione

Quando un’impresa non residente fiscalmente in un dato Stato esercita la propria attività economica all’interno di detto Stato realizza una stabile organizzazione.

Secondo la definizione contenuta nell’art. 162 TUIR, l’attività economica dell’impresa estera può essere realizzata attraverso una sede stabile di affari o mediante persone che agiscono per conto dell’impresa. La sede fissa di affari della società estera può essere:

  • una sede di direzione;
  • una succursale;
  • un ufficio;
  • un’officina;
  • un laboratorio;
  • una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali.

La presenza economica della sede di affari collegata all’impresa non residente deve essere significativa e continuativa.

La definizione data dalla normativa italiana è conforme alla nozione contenuta all’art. 5 del modello di Convenzione dell’OCSE, dove la stabile è definita come una sede di affari fissa in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività.

È importante notare che lo sviluppo di attività economiche in ambito digitale consente ad una società estera di operare in Italia con piattaforme online che non prevedono una sede materiale sul territorio.

In proposito l’art 162 TUIR stabilisce alla lettera f-bis) che il concetto di stabile si riferisce anche ad “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso.” Le attività svolte in Italia in ambito di economia digitale da società estere integrano, dunque, una stabile organizzazione e sono soggette al nostro regime fiscale.

2. I casi di esclusione

L’art. 162 TUIR definisce anche le casistiche in cui non si ha una stabile organizzazione.

In particolare, un cantiere di costruzione o di montaggio o di installazione, ovvero le attività di supervisione collegate, non sono casi di stabile organizzazione se l’attività ha una durata inferiore a tre mesi.

Sono escluse, inoltre, le ipotesi in cui l’impresa madre ha una sede in un altro Stato che utilizza per il deposito, l’esposizione o la consegna di beni o merci, oppure per immagazzinare beni o merci ai soli fini della trasformazione da parte di altra impresa, o se la sede di affari è utilizzata per acquistare beni o merci o per raccogliere informazioni per l’impresa.

Non configurano la fattispecie anche le attività esclusivamente di carattere preparatorio o ausiliario all’attività principale della casa madre.

3. Stabile organizzazione personale

La presenza economica di una impresa non residente nel nostro Stato può realizzarsi anche attraverso una stabile organizzazione personale.

In questo caso l’impresa estera conclude affari per mezzo di una persona fisica che agisce in nome e per conto dell’impresa, anche in assenza di una struttura materiale.

Si è in presenza di tale caso quando una persona fisica agisce nel territorio di uno Stato per conto dell’impresa non residente, concludendo contratti o negoziando (potendosi quindi considerare un agente dipendente). Si tratta, in particolare, di contratti:

  • stipulati dalla persona fisica in nome dell’impresa;
  • che riguardano il trasferimento della proprietà o la concessione del diritto di utilizzo di beni di tale impresa o che l’impresa ha il diritto di utilizzare;
  • che sono relativi alla fornitura di servizi da parte dell’impresa.

Non si ha stabile personale se la persona fisica agisce in modo indipendente dalla impresa madre e svolge la propria ordinaria attività.

4. Stabile organizzazione e rilevanza fiscale

Il concetto di stabile organizzazione è fondamentale per determinare se in un determinato Stato sono dovute le imposte sui redditi prodotti.

redditi prodotti dall’attività economica dell’impresa estera nel nostro Stato sono tassati secondo le nostre regole fiscali.

La società estera dovrà, quindi, pagare in Italia le imposte sui redditi prodotti dall’attività economica esercitata nel nostro Stato.

Se è invece una società italiana ad avere una stabile organizzazione all’estero, i redditi prodotti nel paese straniero devono essere dichiarati in Italia.

I redditi prodotti dalla stabile organizzazione italiana già tassati all’estero, possono essere detratti dalla casa madre italiana.

Per evitare una doppia imposizione fiscale, l’art. 165 TUIR prevede il riconoscimento di un credito d’imposta per le imposte già pagate dalla società italiana allo stato estero sui redditi ivi prodotti.

È stata stipulata, inoltre, una Convenzione contro le doppie imposizioni, per evitare o attenuare la possibilità di doppia imposizione per l’impresa madre per i redditi prodotti all’estero.

Gli ulteriori aspetti fiscali saranno affrontati specificamente nell’articolo dedicato alla stabile organizzazione IVA.

5. Stabile organizzazione occulta

Può accadere che una società estera, pur esercitando un’attività economica in maniera stabile in Italia, non dichiari al Fisco italiano i redditi prodotti da predetta attività.

Si ha in questo caso una stabile organizzazione occulta perché tale realtà è nascosta agli occhi del fisco italiano e non assolve ai propri obblighi fiscali e contributivi.

Il Fisco può individuarla attraverso elementi indiziari che facciano emergere il rapporto che intercorre tra l’impresa straniera e la sua sede in Italia (la cd. presunzione di stabile organizzazione).

Tali elementi sono rappresentati, ad esempio:

  • dall’identità delle persone fisiche che operano nell’impresa straniera rispetto a quella italiana;
  • dalla dipendenza e delle operazioni poste in essere dalla stabile organizzazione rispetto all’impresa madre;
  • dalla negoziazione e dalla conclusione di contratti per l’impresa madre a prescindere dal conferimento di poteri di rappresentanza.

La tematica della stabile organizzazione occulta è complessa e abbraccia la disciplina fiscale dei diversi stati in cui risiedono l’impresa madre e la sua sede di affari all’estero.

La conoscenza degli elementi tipici di questo istituto è necessaria per comprendere se si sta operando attraverso una stabile organizzazione e quali sono gli adempimenti fiscali da osservare.

6. Stabile organizzazione in Italia adempimenti

Una società estera che vuole aprire in Italia una stabile deve:

  1. istituire la sede secondaria mediante un apposito verbale e un apposito statuto che vanno depositati presso un notaio entro 45 giorni;
  2. nominare un rappresentante;
  3. attivare la PEC;
  4. procedere all’iscrizione presso il Registro delle Imprese;
  5. inviare il modello AA7/10 di inizio attività all’Agenzia delle Entrate;
  6. procedere ad effettuare le comunicazioni all’INAIL e/o INPS.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni espresse non necessariamente siano applicabili al tuo caso concreto.

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Dichiarazione integrativa a sfavore: quello che dovresti sapere

Dichiarazione integrativa a sfavore e ravvedimento operoso: la guida completa!

Se hai commesso un errore nella compilazione della dichiarazione dei redditi o nella compilazione della dichiarazione IVA della tua società – da cui deriva il minore versamento di imposte rispetto a quelle effettivamente dovute – e intendi correggere errori od omissioni, devi presentare una dichiarazione integrativa a sfavore.

Essa, in parole semplici, sostituisce la dichiarazione dei redditi originaria, rappresentando una versione corretta della stessa.

Dopo averla trasmessa, è necessario versare le maggiori imposte emergenti dalla correzione effettuata, usufruendo dell’applicazione ridotta delle sanzioni attraverso l’istituto del ravvedimento operoso (articolo13 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472).

1. Differenze tra dichiarazione integrativa a sfavore e dichiarazione integrativa a favore

La presentazione della dichiarazione integrativa serve per correggere, in via esemplificativa, due tipologie di errori.

Errori a sfavore del contribuente: si tratta di errori od omissioni da cui deriva il pagamento di  maggiori imposte.

Errori a favore del contribuente: si tratta di errori od omissioni da cui deriva un minore versamento di imposte ovvero da cui deriva il riconoscimento di un maggiore credito di imposta.

Da tali errori od omissioni possono scaturire due tipologie distinte di dichiarazione integrativa:

  • dichiarazione integrativa a sfavore del contribuente;
  • dichiarazione integrativa a favore del contribuente.

2. Termini entro cui presentarla

L’Amministrazione finanziaria può sottoporre una società ad accertamento fiscale fino al 31 dicembre del quinto anno successivo rispetto a quello in cui è stata presentata la dichiarazione dei redditi o la dichiarazione IVA, per poter contestare gli errori od omissioni compiute.

Nell’ipotesi di omessa dichiarazione dei redditi e IVA, il termine di decadenza dell’accertamento risulta prorogata al settimo anno successivo rispetto a quello in cui avresti dovuto presentare la dichiarazione, attesa la maggiore difficoltà che l’Agenzia delle Entrate ha nell’operare una verifica o un controllo fiscale a seguito di tale omissione.

È importante notare che solo nell’ipotesi in cui tu abbia inviato correttamente la dichiarazione (e non nel caso di omessa dichiarazione), potrai inviare la dichiarazione integrativa a sfavore entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, mediante la trasmissione telematica all’Agenzia delle Entrate (anche con intermediario autorizzato).

3. Sanzioni dichiarazione integrativa

La normativa fiscale prevede due tipologie diverse di sanzione in sede di presentazione della dichiarazione integrativa. Esse sono:

  • sanzione amministrativa per mancati e/o omessi versamenti;
  • sanzione amministrativa per infedele dichiarazione.

Di seguito analizzeremo le loro caratteristiche.

3.1. Sanzione amministrativa per mancati e/o omessi versamenti

In questo caso ti sarà applicata una sanzione amministrativa del 30%, calcolato avendo come punto di riferimento le maggiori imposte dovute o il minor credito generato ai sensi dell’articolo 13 del D. Lgs. n. 471 del 1997 inerente ai ritardati od omessi versamenti diretti e altre tipologie di violazioni in materia di compensazione. È importante notare che questa sanzione trova esclusivamente applicazione qualora gli errori siano rilevabili in sede di controllo formale.

3.2. Sanzione amministrativa per infedele dichiarazione

Invece, qui ti troverai di fronte a una sanzione amministrativa che va dal 90% al 180% (cfr. le norme contenute nel D. Lgs. n. 471 del 1997), rispetto le maggiori imposte dovute o rispetto al minor credito generato. È importante notare che questa sanzione trova esclusivamente applicazione qualora gli errori siano rintracciabili solo in fase di accertamento.

Solitamente questa sanzione è applicata quando si erra nell’indicare dei redditi o delle ritenute, degli oneri deducibili o detraibili.

4. Dichiarazione integrativa a sfavore e ravvedimento operoso

Dopo aver analizzato le varie modalità sanzionatorie applicabili alla dichiarazione integrativa è doveroso ricordare che tali sanzioni possono essere ridotte attraverso lo strumento del ravvedimento operoso, ex art. 13 del D. Lgs. n. 472 del 1997.

Tutto il procedimento deve essere utilizzato e ultimato entro i termini visti sopra per la presentazione della dichiarazione integrativa, corrispondenti ai termini dei controlli di accertamento per l’Agenzia delle Entrate.

Per effettuare il ravvedimento operoso occorre versare la maggiore imposta reddituale dovuta (o IVA), gli interessi e le sanzioni (pari al 30% o al 90% della maggiore imposta come precedentemente accennato) e successivamente calcolare le riduzioni.

5. Le riduzioni applicate con il ravvedimento operoso

Ove tu voglia presentare una dichiarazione integrativa a sfavore con l’istituto del ravvedimento operoso potrai usufruire di:

  • una riduzione pari a 1/9 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata entro i 90 giorni dalla scadenza;
  • una riduzione pari a 1/8 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata oltre i 90 giorni, ma entro i termini di un anno;
  • una riduzione pari a 1/7 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata entro i due anni;
  • una riduzione pari a 1/6 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata oltre i due anni, ma nei termini della fase di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate;
  • una riduzione pari a 1/5 del 90% delle maggiori imposte dovute se la dichiarazione integrativa è presentata dopo la contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

6. Il maggior termine di accertamento in caso di dichiarazione

Nelle ipotesi di dichiarazione integrativa a sfavore, è importante prestar fede ai termini di accertamento.

Quando un contribuente – mediante l’istituto del ravvedimento operoso – presenta una dichiarazione integrativa a sfavore, la normativa fiscale prevede infatti un allungamento del termine di decadenza con riferimento agli elementi che sono stati modificati in sede di integrativa.

Se, ad esempio, il contribuente ha modificato nel 2021 il rigo VE24 della dichiarazione IVA relativa all’anno 2017, conseguendone un maggior debito in termini di IVA, l’Amministrazione Finanziaria potrà procedere all’accertamento:

  • della dichiarazione IVA relativa all’anno 2017 entro il 31 dicembre del 2023;
  • del rigo VE24della dichiarazione IVA integrativa a sfavore entro il 31 dicembre 2026.  

È da notare che tale allungamento dei termini di accertamento è valido solo per le dichiarazioni integrative a sfavore, cioè quelle che determinano una maggiore imposta o un minor credito d’imposta.

7. Come compilarla il documento

Per presentare una dichiarazione integrativa a sfavore, devi compilare alcuni quadri della dichiarazione.

Devi barrare il codice 1 – entro il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione – se è inviata di tua spontanea volontà per:

  • modificare errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior o minor reddito;
  • correggere un maggior o minor debito d’imposta;
  • correggere un maggior o minor credito.

Devi barrare il codice 2 se, invece, la stessa è presentata a seguito di una comunicazione di irregolarità inviata dall’Amministrazione Finanziaria.

L’Agenzia delle Entrate, infatti, mette a disposizione dei contribuenti informazioni rilevate direttamente o acquisiste da terzi. Con questa modalità è offerta ai contribuenti la possibilità di modificare volontariamente l’omissione o l’errore commesso.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Notifica avviso di accertamento a mezzo posta

La notifica dell’avviso di accertamento a mezzo posta per essere valida deve rispettare una serie di requisiti.

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza 15 aprile 2021, n. 10012, ha sancito la nullità della cartella di pagamento notificata al contribuente, con cui l’Amministrazione Finanziaria richiedeva a quest’ultimo imposte, sanzioni e interessi contenute in un precedente avviso di accertamento notificato a mezzo posta di cui non è stata però data dall’Amministrazione Finanziaria la prova della notifica.

1. Notifica accertamento a mezzo posta: la disciplina

In materia tributaria – e in particolar modo nell’ambito dell’attività di riscossione delle imposte – l’esercizio del potere impositivo da parte dell’Amministrazione Finanziaria deve essere effettuato rispettando una precisa sequenza di atti, con le relative notificazioni.

Il rispetto di tale sequenza è fondamentale perché consente al contribuente di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa ai sensi dell’articolo 24 della Costituzione.

Ora, sulla base dell’articolo 8 della legge n. 890, la notifica dell’avviso di accertamento a mezzo posta si perfeziona mediante la consegna del plico raccomandato al contribuente.

Qualora non fosse possibile effettuare la notifica dell’avviso di accertamento per temporanea assenza del contribuente o per rifiuto di quest’ultimo a ricevere l’atto impositivo (la c.d. irreperibilità relativa), l’articolo 8 della legge n. 890 del 1982 impone la notifica al destinatario dell’atto di una seconda raccomandata (a carattere informativo) con cui si avvisa tale soggetto del deposito dell’accertamento fiscale presso l’Ufficio postale.

Ove non venga rispettata tale sequenza, la notifica dell’avviso di accertamento effettuata a mezzo posta è nulla.

La nullità della notifica dell’avviso di accertamento – quale atto presupposto – costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità della cartella di pagamento successivamente notificata.

Secondo la Corte di Cassazione (cfr. la sentenza n. 1144 del 2018) la nullità può essere fatta valere mediante la proposizione di un ricorso tributario avverso la cartella di pagamento, successiva rispetto alla notifica dell’avviso di accertamento al contribuente, evidenziando il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto (l’avviso di accertamento appunto).

2. Notifica avviso accertamento a mezzo posta: il caso della sentenza 15 aprile 2021, n. 10012

La fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione – nella sentenza 15 aprile 2021, n. 10012 – riguarda il caso di un contribuente a cui l’Agenzia dell’Entrate-Riscossione (ex Equitalia) ha notificato una cartella di pagamento, derivante da un accertamento fiscale precedente.

Da quello che si evince dagli atti di causa, il contribuente – non avendo mai ricevuto la notifica a mezzo posta dell’avviso di accertamento – ha presentato un ricorso tributario avverso la cartella di pagamento, contestando la mancata notifica dell’avviso di accertamento e quindi l’inesistenza dell’iscrizione a ruolo contenuta nella cartella esattoriale successivamente notificata.

La questione esaminata dalla Corte di Cassazione verte, in sostanza, sul concetto di irreperibilità relativa.

Come può l’Agenzia delle Entrate assolvere all’onere di provare il perfezionamento della notifica di un avviso di accertamento effettuata mediante il servizio postale nel caso di temporanea assenza del destinatario (c.d. irreperibilità relativa)?

La Corte di Cassazione nella citata sentenza, accogliendo il ricorso del contribuente, ha chiarito che nelle ipotesi di irreperibilità relativa del destinatario la prova della notifica dell’avviso di accertamento a mezzo posta può essere data dall’Amministrazione Finanziaria esclusivamente mediante la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata che attesta l’avvenuto deposito dell’avviso di accertamento stesso presso l’ufficio postale (c.d. CAD), non essendo sufficiente la sola prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata.

Seguendo tale impostazione, la Corte di Cassazione nella sentenza ha dichiarato sia la nullità della notifica dell’avviso di accertamento effettuata a mezzo posta sia la nullità della cartella esattoriale impugnata.

3. Conclusione

Nella notifica a mezzo posta dell’avviso di accertamento ai sensi dell’articolo 8 della legge n. 890 del 1982, in caso di mancato perfezionamento della notifica stessa per irreperibilità del destinatario, l’Amministrazione Finanziaria deve inviare al contribuente una seconda raccomandata (la cd. raccomandata informativa) con la quale lo si avvisa del deposito dell’avviso di accertamento presso l’ufficio postale in modo che questi possa ritirarlo ed esercitare il diritto di difesa mediante la proposizione di un ricorso tributario.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

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Se hai necessità di maggiori informazioni puoi inviarci una mail all’indirizzo 4tax.it@4tax.it o compilare il form di contatto qui sotto.

Consulenza fiscale: facciamo chiarezza una volta per tutte!

Consulenza fiscale e consulenza tributaria, di che cosa si tratta? Sono la stessa cosa?

In questo articolo vi spiegheremo che cos’è la consulenza fiscale.

Prima di entrare nel merito della questione dobbiamo innanzi tutto spiegare che consulenza fiscale e consulenza tributaria sono la stessa cosa.

Si tratta di due termini differenti con cui ci si riferisce ad una consulenza in materia di fiscalità e tributi (più comunemente chiamati imposte).

1. Consulenza fiscale cos’è?

La cosa importante, quando acquisti un servizio di consulenza tributaria è innanzitutto capire cosa ti serve.

Che tipo di azienda hai? Hai una ditta individuale, una società di persone oppure una società di capitali?

Produci beni o rendi servizi?

Che fatturato ha la tua azienda?

In che tipo di businness è specializzata la tua azienda?

La tua azienda opera nel mercato internazionale?

Hai in azienda del personale dedicato agli adempimenti fiscali e tributari?

Facciamo queste domande perché il consulente tributario (dottore commercialista o avvocato tributaristadeve essere scelto sulla base di tutta una serie di considerazioni e di specificità: scegliere i consulenti fiscali non è semplice!

Se, ad esempio, la tua azienda opera prevalentemente nel mercato nazionale ed ha un fatturato non molto elevato, dovrai scegliere un consulente a 360 gradi che segua la tua azienda sia sotto l’aspetto degli adempimenti dichiarativi sia sotto l’aspetto più della consulenza fiscale e tributaria.

Se, invece, hai più società – con un fatturato importante che magari operano nel mercato internazionale e che effettuano esportazioni in tutto il mondo – hai probabilmente bisogno di un consulente fiscale o di un avvocato tributarista che sia maggiormente specializzato in materia di IVA e dogane.

Fatta questa precisazione, ti spieghiamo adesso quanti tipi di consulenza tributaria esistono.

2. Consulenza amministrativa fiscale e tributaria a carattere continuativo

La consulenza fiscale e tributaria a carattere continuativo riguarda principalmente gli adempimenti di natura contabile e fiscale (dichiarazione dei redditi, dichiarazione IVA, fatturazione elettronica, etc). Si tratta della tipologia di consulenza più diffusa in Italia, il cui tessuto imprenditoriale è prevalentemente costituito da PMI.

Questo tipo di consulenza, correlata all’attività di chiusura dei bilanci, è svolta dal dottore commercialista.

Vi è una seconda tipologia di consulenza fiscale a carattere continuativo – la cosiddetta consulenza day by day – necessaria a quelle società che hanno già del personale in azienda che cura gli adempimenti fiscali. Questo tipo di consulenza ha l’obiettivo di dare supporto al personale in azienda dedicato agli adempimenti di carattere fiscale.

Il consulente fiscale cosa fa?

Il consulente fiscale – avvocato tributarista o dottore commercialista – aiuta le aziende a trovare la migliore soluzione sotto il profilo fiscale e tributario.

3. Consulenza fiscale straordinaria

La consulenza tributaria a carattere straordinario è, invece, un tipo di consulenza di cui non si ha bisogno in via continuativa ma soltanto in determinati momenti durante la vita dell’impresa. Vediamo di cosa si tratta.

  • Consulenza nel contenzioso tributario: è un tipo di assistenza e di consulenza – svolta da avvocati fiscalisti e dottori commercialisti – necessaria quando l’Agenzia delle Entrate ti notifica un avviso di accertamento, chiedendoti maggiori imposte, sanzioni e interessi.
  • Consulenza nella fase delle verifiche fiscali: è un tipo di consulenza fiscale e tributaria di cui si ha bisogno quando l’Amministrazione Finanziaria o la Guardia di Finanza effettuano una verifica fiscale in azienda.
  • Consulenza in materia di M&A e riorganizzazioni societarie: è un tipo di consulenza tributaria volta alla pianificazione e alla realizzazione di operazioni di riorganizzazione societaria nazionali e transfrontaliere quali fusioni, scissioni, acquisizioni, trasferimenti di residenza ed altre operazioni straordinarie.
  • Consulenza fiscale internazionale: è un tipo di consulenza di cui hanno bisogno imprese molto strutturate, e con fatturati molto importanti, che operano nel mercato internazionale attraverso delle stabili organizzazioni per operare una corretta pianificazione fiscale internazionale.

4. Conclusioni

Abbiamo cercato di spiegare in poche parole cos’è la consulenza fiscale e tributaria.

Si tratta di una suddivisione davvero molto semplicistica, ma che già può dare un’idea di base da cui partire per scegliere il giusto consulente.

La verità è che per ogni esigenza ogni studio legale tributario ha la sua specificità: le consulenze fiscali vanno quindi scelte con cura.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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La residenza fiscale delle persone fisiche

Residenza fiscale e domicilio, iscrizione AIRE e trasferimento in Stati a fiscalità privilegiata!

Se hai la residenza fiscale all’estero oppure hai intenzione di rientrare in Italia usufruendo delle agevolazioni fiscali previste per il rientro dei cervelli, ti consigliamo di leggere questo articolo.

1. Normativa residenza fiscale delle persone fisiche

Il concetto di residenza fiscale delle persone fisiche è disciplinato dall’articolo 2, comma 2, del TUIR. La disciplina è poi contenuta:

  • nella legge 24 dicembre 1954, n. 1228 e nel D.P.R. 30 maggio 1989, n. 223, per quanto riguarda l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, e
  • nella legge 27 ottobre 1988, n. 470 e nel D.P.R. 6 settembre 1989, n. 323, per quanto riguarda poi la disciplina dell’iscrizione all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE).

2. Residenza fiscale definizione

La prima cosa che occorre evidenziare è che la definizione di residenza fiscale delle persone fisiche è più ampia rispetto alla nozione di residenza civilistica.

La residenza ai sensi del codice civile rappresenta solo una delle tre ipotesi sulla base delle quali una persona fisica è considerata fiscalmente residente in Italia.

Sono infatti fiscalmente residenti in Italia le persone che per la maggior parte del periodo di imposta:

  • sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
  • hanno il domicilio ai sensi del codice civile nel territorio dello Stato;
  • hanno la residenza ai sensi del codice civile nel territorio dello Stato.

Le tre casistiche sono alternative tra di loro, questo significa che una persona fisica ha la residenza fiscale in Italia se si trova anche in una sola di esse.

Cosa succede se una persona fisica ha la residenza fiscale in Italia? In tal caso, il residente fiscale sarà tassato in Italia ai fini delle imposte sui redditi ovunque prodotti (sia in Italia che all’estero).

3. L’iscrizione all’Anagrafe della popolazione residente

Il primo criterio utile per individuare la residenza ai fini fiscali in Italia di una persona fisica è rappresentato dal requisito dell’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente.

Per iscriversi all’anagrafe è necessario:

  • avere la propria dimora abituale in un Comune situato nel territorio dello Stato italiano;
  • aver stabilito in un Comune italiano il proprio domicilio.

L’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni, ovvero 184 in caso di anni bisestili) – a seguito di elezione di domicilio o di residenza – comporta la residenza fiscale in Italia (cfr. la sentenza della Corte di Cassazione n. 21970 del 28 ottobre 2015).

Va evidenziato che le persone che hanno una dimora all’estero in via temporanea (lavori stagionali o per ragioni di tempo limitate) non cessano di appartenere alla popolazione residente.

4. Trasferimento della residenza fiscale all’estero

Il trasferimento della residenza fiscale all’estero di una persona fisica è subordinato all’applicazione sia della disciplina in materia di anagrafe sia della disciplina in materia di AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero). Tale disciplina non si applica se il soggetto:

  • va all’estero per cause di durata limitata non superiore a dodici mesi;
  • va all’estero per un’occupazione stagionale;
  • è un dipendente di ruolo dello Stato in servizio all’estero, secondo i criteri delle Convenzioni di Vienna sulle relazioni diplomatiche.

Negli altri casi, i soggetti – iscritti all’anagrafe della popolazione residente – che vogliano trasferire la residenza fiscale all’estero devono darne notizia al Comune italiano in cui si è avuta l’ultima residenza.

La cancellazione dall’anagrafe della popolazione residente – con relativa iscrizione all’AIRE per un periodo superiore a 183 giorni (184 in caso di anno bisestile) – non è infatti sufficiente ad escludere che un soggetto sia fiscalmente residente in Italia.

Occorre infatti verificare se (nonostante l’iscrizione all’AIRE) il soggetto abbia comunque mantenuto in un determinato luogo in Italia la propria dimora abituale ovvero il centro principale dei propri affari o interessi. Tali elementi possono essere infatti desunti con mezzi di prova anche in contrasto con le risultanze dei registri anagrafici. L’accertamento della qualità di soggetto fiscalmente residente in Italia si desume da una valutazione complessiva degli atti o fatti riferibili al soggetto come:

  • l’assunzione di cariche societarie;
  • la partecipazione a riunioni d’affari;
  • l’iscrizione a circoli;
  • i legami familiari e affettivi;
  • gli interessi economici;
  • l’intenzione a far rientrare in Italia proventi conseguiti all’estero;
  • l’intenzione di abitare in Italia, desunta da atti o fatti concludenti, comprese le pubbliche dichiarazioni.

Al riguardo, è importante notare che il contribuente – qualora abbia trasferito la residenza fiscale all’estero – ha comunque la possibilità di richiedere a tale stato il certificato di residenza fiscale, al fine di dimostrare l’effettiva permanenza al di fuori dello Stato italiano.

5. La differenza tra residenza e domicilio ai fini fiscali

La differenza tra residenza e domicilio fiscale è di particolare importanza perché consente di valutare quando:

  • un soggetto anagraficamente non residente in Italia lo è invece dal punto di vista fiscale;
  • un cittadino italiano iscritto all’AIRE può essere considerato un soggetto fiscalmente residente in uno Stato estero.

La residenza è il luogo in cui la persona ha la dimora abituale. Ciò che occorre verificare non è solo l’elemento obiettivo della permanenza del soggetto in tale luogo, ma anche l’intenzione di abitarvi stabilmente, il che si desume desumibile dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle relazioni sociali.

Il domicilio è il luogo in cui un determinato soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi. La corretta individuazione del domicilio fiscale non dipende dalla presenza fisica di un determinato soggetto ma richiede una valutazione di una serie di elementi di natura patrimoniale, economica, e familiare.

Si tratta di un concetto molto ampio che necessita di un corretto bilanciamento, sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo, fra la rilevanza dei diversi luoghi in cui sono dislocati gli interessi economici, professionali e familiari di un determinato soggetto.

Domicilio fiscale e residenza fiscale sono, quindi, due concetti diversi ma che servono ad identificare quando una persona fisica può considerarsi fiscalmente residente in Italia e quindi un soggetto passivo.

6. Presunzione di residenza fiscale in Italia e inversione dell’onere della prova

Al fine di contrastare l’evasione fiscale – attuata da una persona fisica mediante lo strumentale trasferimento della residenza fiscale in altri paesi – l’articolo 2 del TUIR, il comma 2-bis impone ai cittadini italiani cancellati dall’anagrafe della popolazione residente trasferitisi in Stati aventi un regime fiscale agevolato l’onere di dimostrare di non essere più fiscalmente residenti in Italia.

L’Agenzia delle Entrate può quindi notificare a una persona fisica un avviso di accertamento e contestare il trasferimento della residenza in un Paese estero a fiscalità privilegiata, senza dover dimostrare alcunché: è il contribuente che deve dare dimostrazione che il trasferimento nello Stato estero avente un regime fiscale privilegiato non è avvenuto per ragioni di natura di risparmio fiscale.

Per individuare i Paesi o territori aventi un regime fiscale privilegiato occorre visionare il decreto ministeriale 4 maggio 1999 è stato stilato e condiviso che contiene l’elenco dei “paradisi fiscali” (c.d. “Paesi Black list”).

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Interpelli Agenzia Entrate: efficacia anche per parti correlate

Le risposte agli interpelli dell’Agenzia delle Entrate si applicano alle controparti dell’istante!

L’articolo11, comma 3, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che la risposta agli interpelli dell’Agenzia delle Entrate vincola solo il richiedente.

Con la recente ordinanza 30 marzo 2021, n. 8740, la Corte di Cassazione effettua un’interpretazione estensiva della suddetta norma, ritenendo applicabile ed efficace la risposta data dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di interpello anche alle parti contrattuali del proponente.

1. Interpello Agenzia delle Entrate: l’ordinanza della Cassazione 30 marzo 2021, n. 8740

Con l’ordinanza n. 8740 del 30 marzo 2021, la Corte di Cassazione ha esaminato il caso di una società attiva specializzata nel settore degli impianti fotovoltaici, alle cui cessioni ha applicato l’aliquota IVA agevolata del 10%.

L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla predetta società un avviso di accertamento, con il quale ha contestato l’applicazione agevolata dell’IVA al 10% alle cessioni di impianti fotovoltaici effettuate dalla società, richiedendo il pagamento della maggiore IVA, oltre interessi e sanzioni.

Nell’ambito del processo di primo e secondo grado, la Società – contestando l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate – ha fatto leva sull’interpretazione rilasciata dall’Agenzia delle Entrate in risposta ad alcuni interpelli, emessi nei confronti di alcune parti contrattuali della società istante, nei quali l’applicazione dell’IVA agevolata del 10 per centro sembrerebbe essere stata ritenuta corretta dalla Commissione Tributaria Provinciale e Regionale.

2. Interpelli Agenzia delle Entrate: la risposta ha efficacia anche per le controparti dell’interpellante

La Corte di Cassazione – nel respingere il ricorso per Cassazione dell’Agenzia delle Entrate – nella recentissima ordinanza n. 8740 del 30 marzo 2021 ha fornito un’interpretazione innovativa dell’articolo 11, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuenti, molto attesa dagli operatori del settore.

In particolare, la Corte di Cassazione – nel richiamarsi al terzo comma dell’articolo 11 dello Statuto dei diritti del contribuente – ha affermato che l’efficacia vincolante della risposta “pur non trovando applicazione, in via generale, in relazione a casi analoghi relativi a soggetti diversi dall’interpellante” può trovare applicazione “anche a soggetti, diversi da quest’ultimo, che, in relazione all’atteggiarsi e alla struttura della fattispecie impositiva, nonché all’allocazione dei relativi obblighi, sono indissolubilmente legati alla questione investita dall’interpello (e della relativa risoluzione o circolare dell’Amministrazione)”.

Secondo il Giudice delle leggi, tale soluzione è applicabile al caso esaminato “in cui la questione oggetto dell’interpello interessa l’individuazione dell’aliquota i.v.a. applicabile ad un’operazione di cessione di beni, inconsiderazione della idoneità del contenuto della risposta dell’Amministrazione ad interessare sia il cedente, sia il cessionario, avuto riguardo al modularsi degli obblighi di fatturazione, di versamento dell’imposta e di rivalsa dell’imposta applicata”.

3. Efficacia interpelli Agenzia Entrate: considerazioni finali

La soluzione data dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza in commento appare giusta, oltre che di buon senso.

Sotto tale aspetto appare auspicabile una apertura della giurisprudenza anche di merito in tal senso, al fine di estendere l’efficacia della risposta all’istanza di interpello anche ai soggetti contrattualmente correlati al soggetto istante limitatamente alla fattispecie rappresentata nell’istanza.

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Appello incidentale tributario: l’interesse ad agire!

Una peculiare tipologia di impugnazione è rappresentata dall’appello incidentale tributario.

Si tratta di una particolare tipologia di impugnazione che trova applicazione quando, a conclusione del giudizio di primo grado, sia riscontrabile nella sentenza del primo giudice (la Commissione Tributaria Provinciale) una soccombenza reciproca tra contribuente e Ufficio.

1. L’interesse ad agire in questo appello

L’interesse a presentare un appello incidentale tributario è connesso alla “soccombenza” delle parti. Si tratta di una forma di impugnazione in cui ognuna delle parti processuali deve in sostanza avere un interesse ad appellare la sentenza di primo grado.

È importante evidenziare che la soccombenza nel processo tributario deve essere distinta dall’obbligo di devoluzione dei motivi non esaminati o rigettati dalla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale (ai sensi dell’art. 56 del D. Lgs. n. 546 del 1992), per cui si rende invece necessaria la riproposizione dei medesimi nell’atto di controdeduzioni.

Questo perché i motivi e le eccezioni proposte con il ricorso tributario di primo grado non accolti dalla Commissione Tributaria Provinciale devono essere riproposte. Diversamente, le stesse si intendono rinunciate e si formerà il giudicato in relazione alla sentenza della CTP ad esse afferente.

2. La costituzione in giudizio

Sulla base dell’articolo 54, comma 2,del D. Lgs. n. 546 del 1992, l’appello incidentale deve essere depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale entro il termine di 60 giornia decorrere dalla data della notifica dell’appello tributario principale (la cui costituzione deve invece avvenire entro trenta giorni della notifica).

3. Il suo scopo

L’appello incidentale ha come obiettivo quello di preservare il principio dell’unitarietà del giudizio di secondo grado. Lo scopo è di consentire alla Commissione Tributaria Regionale – a seguito della presentazione di un appello tributario principale – di decidere anche in relazione alle impugnazioni presentate dalla altre parti soccombenti.

La differenza fondamentale che sussiste tra appello incidentale tributario e appello tributario è quindi essenzialmente di tipo cronologico, atteso che sotto il profilo dell’interesse ad impugnare ogni appello tributario(principale e incidentale) gode di autonomia propria.

L’appello tributario principale è quello presentato per primo da una delle due parti parzialmente soccombenti (la parte appellante) e che determina l’instaurazione del processo di secondo grado in Commissione Tributaria Regionale. L’appello incidentale tributario, invece, anch’esso contenente dei motivi di impugnazione in relazione alla sentenza di primo grado, è quello che viene predisposto dall’appellato dopo aver ricevuto la notifica dell’appello principale.

Sulla base della giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr. la sentenza della Corte di Cassazione 13 novembre2013, n. 25506), appello tributario principale e appello tributario incidentale sono autonomi tra di loro. Ciò significa che qualora l’appello principale venisse dichiarato inammissibile, tale pena di inammissibilità non colpirebbe automaticamente l’appello tributario incidentale, purché questo sia chiaramente tempestivo (cfr. sul punto anche la circolare del Ministero delle Finanze 23 aprile 1996, n. 98).

Non è quindi da escludere che la Commissione Tributaria Regionale dichiari per qualche motivo inammissibile l’appello principale e accolga, invece, l’appello tributario incidentale. In tal caso, è dunque possibile che il giudice di secondo grado dichiari inammissibile o respinga l’appello principale e accolga quello incidentale (cfr. la sentenza della Corte di Cassazione 6dicembre 2013, n. 27420).

È, infine, importante evidenziare che l’appello incidentale tributario va distinto dall’obbligo di devoluzione delle problematiche non esaminate in primo grado dalla Commissione Tributaria Provinciale.

La devoluzione delle questioni non esaminate può infatti essere effettuata anche oltre il termine previsto dall’articolo 54 del D. Lgs. n. 546 del 1992 per la costituzione in Commissione Tributaria Regionale da parte del soggetto appellato.

4. Quando questo appello è tardivo?

Dall’appello incidentale tributario deve distinguersi l’appello incidentale tributario tardivo.

Con tale ultimo termine si è soliti indicare l’appello che viene notificato successivamente rispetto alla presentazione di un primo appello principale e che viene depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria Regionale – anche se entro i sessanta giorni di cui all’articolo 54, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992 –successivamente al termine per l’impugnazione della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale.

L’appello tardivo è soggetto al rispetto di determinati vincoli ai fini della sua ammissibilità e presuppone che l’interesse alla sua proposizione scaturisca proprio dalla proposizione dell’appello principale. Ciò significa che qualora l’appello tributario principale fosse dichiarato inammissibile la stessa sorte toccherebbe all’appello incidentale tributario tardivo.

Ciò che caratterizza, quindi, l’appello incidentale tributario tardivo è l’assenza di un autonomo interesse a presentare l’impugnazione.

Nella sentenza n. 1664 del 2004, la Corte di Cassazione ha evidenziato che in presenza di una situazione di reciproca soccombenza, l’appello incidentale tardivo è ammesso anche nei confronti di un capo autonomo della sentenza rispetto a quello investito dall’impugnazione principale, sempreché l’interesse a proporre l’impugnazione incidentale dipenda dall’avvenuta proposizione di quella principale.

Da quanto detto appaiono evidenti i rischi in cui si incorre in presenza di un appello incidentale tributario tardivo.

Alla luce di tali considerazioni, in presenza di una sentenza di primo grado in cui si è parzialmente soccombenti e per la quale vi è un interesse a proporre impugnazione, appare consigliabile:

  • predisporre un appello tributario principale o, in alternativa
  • presentare un appello incidentale tributario tempestivo, entro i termini per l’impugnazione della sentenza di primo grado prime cure.

Qualora non fosse possibile presentare un appello tributario principale o l’appello incidentale, appare utile effettuare una valutazione in merito alla sussistenza di un interesse a presentare l’appello incidentale tardivo.

Ove quest’ultimo fosse sorretto da un interesse autonomo ai fini dell’impugnazione sarebbe inammissibile, ed il suo esame sarebbe, quindi precluso.

Tale interpretazione è stata confermata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 2258 del 2018.

5. Il contributo unificato nell’appello incidentale

Se si intende presentare tale appello, è necessario il pagamento del contributo unificato.

Per determinare correttamente l’importo del contributo unificato tributario occorre riferirsi al valore della controversia: occorre cioè considerare le imposte richieste con l’accertamento fiscale, senza le sanzioni e gli interessi.

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Fatture soggettivamente inesistenti: cosa sono?

Quando si menzionano le fatture soggettivamente inesistenti ci si riferisce a quelle fatture che documentano operazioni fraudolente, il cui scopo è porre in essere una frode fiscale al fine di evadere l’IVA.

In particolare, per fatture soggettivamente false si intendono quelle operazioni i cui partecipanti non corrispondono ai soggetti intestatari della fattura: si tratta di operazioni effettivamente realizzate, ma non in capo ai soggetti che risultano dal punto di vista documentale.

Nell’ambito di tali operazioni la posizione più delicata è quella dell’acquirente, il quale spesso deve dimostrare che l’acquisto da lui effettuato non si inseriva in una evasione fiscale.

1. Fatture soggettivamente inesistenti: la normativa

La normativa relativa alle fatture soggettivamente inesistenti è contenuta:

  • nell’articolo 21, comma 7, del D.P.R. n. 633 del 1972;
  • nell’articolo 1, lettera a), del D. Lgs n. 74 del 2000.

2. Fatture soggettivamente inesistenti: esempio

La frode realizzata mediante utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti può essere così descritta.

Un soggetto nazionale (il cosiddetto missing trader) effettua da un soggetto estero l’acquisto di un bene o di un servizio. In tal caso, il soggetto estero emetterà nei confronti del missing trader una fattura senza applicazione dell’IVA, il quale a sua volta emetterà una autofattura ai fini della registrazione dell’acquisto nel registro delle fatture.

Successivamente, il missing trader procede a cedere il bene o il servizio ad un soggetto italiano – spesso ignaro – al quale addebita l’IVA in via di rivalsa.

L’acquirente detrae ai sensi dell’articolo 19, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, l’IVA addebitata dal missing trader. È importante notare che quest’ultimo, avendo acquistato il bene o il servizio dal soggetto estero senza l’IVA, ha la possibilità di operare sul mercato con un prezzo particolarmente vantaggioso (di norma del 10/12 per cento inferiore alla concorrenza). Il missing trader, dopo aver incassato l’IVA dal cessionario, non procede al versamento della stessa.

È da evidenziare che nell’ambito di operazioni soggettivamente inesistenti, lo schema fraudolento può essere realizzato anche con soggetti nazionali e con catene di cessioni di beni o prestazioni di servizi molto più articolare di quelle descritte.

Nell’ambito di una frode fiscale operata mediante l’emissione di fatture soggettivamente inesistenti, la posizione più delicata è senza dubbio quella del cessionario – spesso ignaro – a cui viene disconosciuta la detrazione dell’IVA.

3. Fatture soggettivamente inesistenti: l’onere della prova

La delicata questione dell’onere della prova in caso di frode IVA di natura soggettiva è stata affrontata dalla Corte di Giustizia (cfr. la sentenza C-277/14, punto 50).

La Corte di Giustizia ha affermato che “spetta all’amministrazione tributaria, che abbia constatato evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, dimostrare, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’IVA, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

Solo il tali ipotesi, ad avviso della Corte di Giustizia, il contribuente “deve essere considerato (…) partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle” (cfr. la sentenza C-277/14, punto 50).

In tale sentenza, la Corte di Giustizia ha chiarito che è onere dell’Amministrazione Finanziaria dimostrare che il cessionario acquirente sapeva o avrebbe dovuto sapere che il suo acquisto si inseriva nell’ambito di un’evasione fiscale.

Tale interpretazione è stata di recente condivisa dalla stessa Corte di Cassazione.

La suprema Corte nella sentenza 11 novembre 2020, n. 25426, ha affermato che “è principio condiviso quello secondo cui in tema di IVA, il principio di neutralità dell’imposizione comporta che l’Amministrazione finanziaria, ove contesti che siano state poste a fondamento della detrazione della relativa imposta operazioni soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche in via presuntiva, la ricorrenza di elementi oggettivi dai quali emerga che il contribuente, nel momento in cui acquistò il bene o il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva evaso l’imposta o partecipato ad una frode. Spetta, pertanto, al destinatario della fattura emessa per un’operazione inesistente, ai fini della detrazione dell’imposta, la prova della propria buona fede nel caso in cui dimostri di avere adempiuto a tutti gli obblighi formali e di diligenza richiesti a un operatore del settore e di essere stato nell’oggettiva impossibilità di conoscere l’eventuale frode”.

Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione emerge che in caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’onere della prova, anche mediante l’utilizzo di presunzioni, incombe sull’Amministrazione Finanziaria.

4. Fatture soggettivamente inesistenti: la buona fede

Ove l’Amministrazione Finanziaria dimostri che il cessionario sapeva – o avrebbe potuto sapere con l’ordinaria diligenza – che l’acquisto effettuato si inseriva nell’ambito di una frode fiscale, spetta a tale cessionario dimostrare la sua estraneità fornendo apposita prova contraria.

In sostanza, l’ottemperanza al dovere probatorio da parte del Fisco, nei termini appena delineati, determina un’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente, il quale dovrà dimostrare la propria buona fede.

Su quest’ultimo aspetto, la giurisprudenza ha affermato che la buona fede dell’acquirente non può essere dimostrata mediante la mera esibizione di una contabilità regolare o mediante la dimostrazione dell’assenza di un vantaggio economico. In tal caso si rende necessario dare evidenza di aver fatto tutto il possibile per appurare la correttezza fiscale dell’operazione.

5. Fatture soggettivamente inesistenti: la deducibilità del costo

Le conseguenze che si producono sotto il profilo fiscale nell’ambito delle fatture soggettivamente false sotto il profilo soggettivo riguardano soltanto la detrazione dell’IVA in capo al cessionario e non la deducibilità dei costi sostenuti.

Ai fini delle imposte sui redditi si perviene, infatti, a delle differenti conclusioni.

Infatti, dopo l’introduzione operata dal decreto-legge n. 16 del 2012 del comma 4-bis all’articolo 14 della legge n. 537 del 1993 – che ha previsto l’indeducibilità dei costi “direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” – i costi documentati mediante fatture soggettivamente inesistenti vengono in via generale considerati deducibili, in quanto relativi a un’operazione che solo in via marginale può ritenersi una fattispecie delittuosa.

A tal fine, di particolare importanza appaiono le considerazioni espresse dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13844 del 6 luglio 2020.

In tale ordinanza, la Corte ha evidenziato che “sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo”.

6. Fatture soggettivamente inesistenti: le sanzioni

Nelle ipotesi in cui venga contestato al cessionario l’utilizzo di fatture soggettivamente false, a tale soggetto, oltre al disconoscimento della detrazione dell’IVA operata, si renderanno applicabili le seguenti sanzioni.

  • Sanzione per infedele dichiarazione: dal 135 al 270 per cento (articolo 5, commi 4 e 4-bis, del decreto n. 471 del 1997).
  • Sanzione per illegittima detrazione dell’IVA: dal 90 al 180 per cento (articolo 6, comma 6, del decreto n. 471 del 1997).

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Accertamento fiscale: cos’è, come funziona e come difendersi

In questo articolo spieghiamo cos’è, come funziona e come ci si può difendere quando si riceve la notifica di un accertamento fiscale.

Appare anche utile, al riguardo, consultare sul punto le informazioni contenute nel sito dell’Agenzia delle Entrate.

1. Accertamento fiscale: cos’è?

L’accertamento fiscale è un atto di natura amministrativa e tributaria emesso dall’Agenzia delle Entrate.

Con tale atto, l’Agenzia delle Entrate richiede formalmente al contribuente maggiori imposte – oltre sanzioni e interessi – rispetto a quelle da questo pagate all’erario mediante la presentazione della dichiarazione dei redditi.

Tale atto è emesso nei confronti di un determinato contribuente (persona fisica o azienda), ove a seguito di una verifica fiscale o di un controllo fiscale emerga una forma di evasione fiscale – e può essere notificato:

  • presso la residenza o il domicilio del contribuente (in caso di persona fisica);
  • presso la sede legale (nel caso di società o enti equiparati).

L’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate può essere notificato:

  • mediante ufficiale giudiziario presso il domicilio, la residenza o la sede legale (per le società) del contribuente;
  • mediante raccomandata A/R;
  • mediante PEC.

2. Accertamento fiscale: come funziona?

Come funziona l’accertamento fiscale?

L’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate è formato da più parti, ognuna di fondamentale importanza.

  • Intestazione: è la parte che indica l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto e il contribuente cui lo stesso è intestato.
  • Motivazione dell’avviso di accertamento: è la parte forse fondamentale dell’accertamento fiscale. Si tratta della parte in cui l’Ufficio rende note al contribuente le motivazioni sula base delle quali è dovuta una maggiore imposta. Nell’ipotesi in cui l’Ufficio non spieghi bene le ragioni poste a fondamento della verifica fiscale potrebbe configurarsi un vizio di motivazione dell’avviso di accertamento.
  • Calcoli: è la parte dell’accertamento fiscale in cui vengono effettuati i calcoli della maggiore imposta dovuta dal contribuente con le relative sanzioni e interessi.

3. Accertamento fiscale: come risolvere!

L’ordinamento tributario prevede diversi modi che consentono al contribuente di trovare una soluzione quando questi riceve la notifica di un accertamento fiscale. Li vediamo qui di seguito.

  • Acquiescenza dell’avviso di accertamento: se il contribuente rinuncia a presentare un ricorso tributario, può definire la pretesa erariale mediante il pagamento delle imposte dovute, ottenendo la riduzione delle sanzioni a un terzo.
  • Definizione agevolata delle sole sanzioni: il contribuente può definire le sole sanzioni, riservandosi la possibilità di presentare un ricorso tributario avverso l’avviso di accertamento solo per le maggiori imposte. Le sanzioni già versate non possono essere rimborsate.
  • Istanza di accertamento con adesione: il contribuente, entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’accertamento tributario, può presentare istanza di accertamento con adesione, al fine di addivenire ad un accordo con l’Ufficio in merito all’imposta dovuta. In caso di accordo, le sanzioni sono ridotte a un terzo. È importante notare che si può presentare istanza di accertamento con adesione anche se il contribuente ha definito le sole sanzioni (vedi precedente punto 2).
  • Autotutela tributaria: il contribuente può richiedere il riesame dell’accertamento fiscale all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto mediante la presentazione di un’istanza di autotutela tributaria. È importante rammentare che la presentazione dell’istanza non sospende la decorrenza dei termini per la presentazione del ricorso tributario.

Ci sono altresì ulteriori aspetti da considerare. Ne parliamo in questo video.

https://youtube.com/watch?v=J3EPLMET6vY%3Fstart%3D11

4. Accertamento fiscale come difendersi: il ricorso tributario

Come ci si può difendere dall’accertamento fiscale?

Se il contribuente non presta acquiescenza all’avviso di accertamento, non presenta istanza di accertamento con adesione o non raggiunge nell’ambito di tale procedura un accordo con l’Ufficio, per evitare che la pretesa diventi definitiva deve presentare un ricorso tributario.

Il ricorso tributario deve essere presentato entro il termine di 60 giorni dalla notifica o entro il termine di 150 giorni dalla notifica dell’atto di accertamento se è stata presentata istanza di accertamento con adesione.

Il ricorso tributario deve essere depositato in Commissione Tributaria entro 30 giorni dalla notifica all’Agenzia delle Entrate, a pena di improcedibilità dello stesso.

Per le controversie tributarie che hanno un valore non superiore a 50.000 euro, il ricorso tributario produce anche gli effetti un ricorso-reclamo e può contenere una proposta di mediazione tributaria con richiesta di rideterminazione della pretesa. In tal caso il contribuente non può costituirsi in giudizio prima che siano trascorsi 90 giorni dalla notifica del ricorso reclamo, a pena di improcedibilità del ricorso stesso.

5. Scadenza accertamenti fiscali

La notifica di un accertamento fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate è soggetta al rispetto di determinati termini di decadenza, trascorsi i quali l’Ufficio non può più procedere alla notifica dell’avviso di accertamento.

Qui di seguito vediamo quali sono i termini di prescrizione dell’accertamento fiscale.

Occorre considerare due ipotesi.

  • Il contribuente ha presentato le dichiarazioni fiscali (ai fini delle imposte dirette e dell’IVA): in tal caso l’avviso di accertamento deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
  • Il contribuente non ha presentato le dichiarazioni fiscali (ai fini delle imposte dirette e dell’IVA): in tal caso l’avviso di accertamento deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.

È importante notare che l’Agenzia delle Entrate, entro la scadenza del termine di decadenza, può integrare o modificare l’accertamento fiscale notificato al contribuente mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Agenzia delle entrate.

In tal caso, nell’accertamento fiscale devono essere indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte.

L’amministrazione finanziaria se non rispetta i suddetti termini decade dalla potestà impositiva, non potendo più notificare alcunché al contribuente.

6. Tabella sulla prescrizione dell’accertamento fiscale

Ai fini di una migliore comprensione dell’argomento evidenziato nel precedente paragrafo, qui di seguito alleghiamo una tabella sulla prescrizione dell’accertamento fiscale.

Tabella prescrizione accertamento fiscale

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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