Garante del contribuente: chi è e a cosa serve!

Il Garante del contribuente è una figura essenziale: aiuta le aziende quando il Fisco è scorretto!

Se nell’ambito di una verifica fiscale, da cui deriva la notifica di un avviso di accertamento, il comportamento dell’Agenzia delle Entrate è stato scorretto e si è rilevato lesivo dei diritti del contribuente (principi di collaborazione e buona fede), interpellare il Garante del contribuente può rivelarsi essenziale. Il funzionamento di tale figura è regolato dall’articolo 13 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Chi è?

Il Garante è una figura di fondamentale importanza che può aiutare le aziende e tutti i contribuenti in generale. Si tratta di un organo monocratico che opera in assoluta autonomia.

Esso si trova in ogni Regione d’Italia (presso la Direzione Regionale delle Entrate), in cui viene nominato dal Presidente della Commissione Tributaria Regionale, e nelle province autonome.

Garante del contribuente: la sua funzione all’interno dell’ordinamento

Occorre innanzi tutto chiedersi qual’è la funzione del Garante del contribuente all’interno dell’ordinamento tributario.

Quello che occorre prima di tutto sapere è che tale figura ha un ruolo rilevante in tutte quelle ipotesi in cui i rapporti tra l’Agenzia delle Entrate e il contribuente (azienda o persona fisica) diventano difficili.

Esso, infatti, funge da ponte tra le lamentele del contribuente che ravvisa delle irregolarità nell’operato del Fisco e le pretese avanzate da quest’ultimo attraverso una verifica fiscale o un avviso di accertamento.

Gli scopi del Garante sono:

  • aiutare l’Amministrazione Finanziaria e il contribuente a raggiungere un punto di incontro
  • supportare le legittime ragioni dell’azienda ove fondate
  • intercedere nei confronti del Fisco affinché quest’ultimo riconosca i propri errori e agisca di conseguenza esercitando il potere di autotutela.

Nei casi di particolare rilevanza, il Garante – al fine di garantire la tutela del contribuente – può richiamare gli uffici al rispetto delle norme contenute nello Statuto dei diritti del contribuenti oppure rivolgere raccomandazioni ai dirigenti degli uffici dell’Agenzia delle Entrate.

Per saperne di più, clicca qui e guarda il nostro video.

Istanza al Garante del contribuente

I contribuenti possono rivolgersi al Garante – per lamentare “disfunzioni, irregolarità, scorrettezze, prassi amministrative anomale o irragionevoli o qualunque altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione finanziaria” – inviando un’apposita istanza.

Le ragioni di cui si fa portavoce il Garante contribuente possono anche riguardare, ad esempio, una interpretazione travisata della normativa contenuta nello Statuto del contribuente da parte del Fisco.

Il Garante, per poter valutare eventuali scorrettezze o prassi irragionevoli dell’Agenzia delle Entrate, deve essere avvertito dal contribuente mediante una specifica segnalazione. Il Garante del contribuente, se ritiene fondata la segnalazione del contribuente, si attiva con l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate al fine di stimolare la procedura di autotutela tributaria dell’avviso di accertamento notificato al contribuente.

Egli non ha però la possibilità di intervenire in maniera diretta per modificare o per annullare l’atto di accertamento emanato dal Fisco.

È noto, infatti, che l’autotutela tributaria, è il potere che ha l’Agenzia delle Entrate di riesaminare i propri atti al fine di confermarli, modificarli o annullarli del tutto. Il Garante del contribuente ha, quindi, la facoltà di “attivare” la procedura di autotutela ma non ha la facoltà di esercitarne il relativo potere.

Il Garante ha, quindi, una essenziale funzione deflattiva del contenzioso tributario, volta ad evitare che dall’insorgenza dello stesso possa scaturire un pregiudizio sia per l’azienda (costretta ad una inutile e costosa lite tributaria) sia per il Fisco (che al fine di sostenere un contenzioso tributario evitabile dovrà spendere risorse pubbliche, oltre ad assumersi il rischio di una possibile condanna alle spese).

Garante del Contribuente

Garante del contribuente: come funziona l’iter?

Il Garante per svolgere il suo compito – dopo aver ricevuto la segnalazione da parte dell’azienda – acquisisce la documentazione e le delucidazioni necessarie dall’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’avviso di accertamento.

Questo, una volta interpellato, deve prontamente dare un riscontro al Garante entro 30 giorni dalla relativa richiesta.

A ben vedere, è nel riscontro che deve essere assicurato dall’Amministrazione alle richieste presentate dal Garante che è possibile individuare tutta la forza di questo organo e la capacità di essere un ausilio concreto ai diritti del contribuente.

L’attività del Garante del Contribuente può essere, dunque, di estrema utilità per le aziende che lamentano irregolarità dell’azione amministrativa nei loro confronti o che sono destinatarie di un atto impositivo di dubbia legittimità.

Il ricorso a questo strumento può risultare una strada efficace per rinunciare al contenzioso tributario e giungere rapidamente, e in modo soddisfacente, ad una risoluzione della lite potenziale con il Fisco.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

Se cerchi qualcuno che ti aiuti a rivolgerti al Garante, compila il form di contatto qui sotto.

Quadro RW: chi deve compilarlo?

La compilazione del quadro RW assolve ad una specifica funzione: quella di comunicare all’Amministrazione Finanziaria i redditi prodotti all’estero da parte di taluni soggetti.

In questo articolo cercheremo di dare alcune istruzioni e spiegare come tale quadro deve essere compilato ai fini di un’ottimizzazione del monitoraggio fiscale di tali attività e/o patrimoni esteri.

1. Cos’è il modello o quadro RW?

Le persone fisiche che hanno la residenza fiscale in Italia, le società semplici, gli enti non aventi come oggetto esclusivo un’attività commerciale detenenti investimenti di patrimonio all’estero o attività finanziarie che producono reddito in Italia devono compilare il quadro RW del modello Redditi (ex Unico).

Trattasi di un particolare quadro della dichiarazione dei redditi relativa alle persone fisiche ed enti non commerciali, da compilare in determinati casi specifici.

Il quadro RW del modello Redditi ha l’obiettivo di consentire all’Amministrazione Finanziaria il monitoraggio fiscale di determinati proventi da assoggettare a tassazione in Italia.

Esso serve anche per la determinazione delle due relative imposte patrimoniali:

  • IVIE – Imposta sugli immobili detenuti all’estero;
  • IVAFE – Imposta sulle attività finanziarie detenute all’estero.

2. Come funziona il quadro RW del modello redditi?

Il quadro RW modello unico deve essere trasmesso con la dichiarazione dei redditi, che deve essere inviata per via telematica entro il 30 novembre dell’anno successivo rispetto alla chiusura del periodo di imposta.

È importante evidenziare che l’obbligo del monitoraggio non deve essere effettuato per i depositi e per i conti correnti bancari avviati all’estero il cui valore massimo complessivo non superi, durante il periodo d’imposta, i 15.000 euro.

Rimane, comunque, l’obbligo di compilare il quadro quando sia da versare l’IVAFE.

3. Chi è tenuto a compilare il modulo RW?

I soggetti con residenza fiscale in Italia sono obbligati a seguire la normativa sul monitoraggio fiscale ove questi – durante il periodo d’imposta – possiedano investimenti patrimoniali o finanziari all’estero.

I soggetti aventi obbligo di adempiere alla disciplina prevista per il monitoraggio fiscale sono:

  • Persone fisiche, privati e soggetti con partita IVA;
  • Enti non commerciali;
  • Società semplici;
  • Enti simili alle società semplici;
  • Enti o istituzioni di previdenza obbligatoria.

4. Quali sono i soggetti esonerati dalla compilazione del quadro RW?

Comunque, vi è anche la possibilità che alcuni soggetti siano esonerati dalla compilazione del quadro RW del modello redditi. Sul punto indicazioni sono contenute nella circolare n. 38/E/2013 dell’Agenzia delle Entrate.

I soggetti esonerati dalla compilazione del quadro RW sono:

  • le società di capitali;
  • gli enti commerciali;
  • le società a nome collettivo;
  • le società che possono svolgere sia attività commerciale che non commerciale (SAS).

Esoneri soggettivi

L’articolo 38, comma 13, del D.L. n. 78/10 prevede l’esonero dalla disciplina del monitoraggio di alcuni soggetti con residenza fiscale in Italia perché:

  • vi sono delle disposizioni di legge;
  • vi sono alla base degli accordi internazionali.

Sono esonerati dal monitoraggio fiscale quindi:

  • società di capitali e di persone (con l’eccezione delle società semplici);
  • enti commerciali;
  • enti pubblici;
  • organismi con attività di investimento collettivo del risparmio;
  • fondi immobiliari soggetti a un regime di non imponibilità;
  • forme pensionistiche complementari soggette a un fiscalità sostitutiva;
  • persone fisiche che lavorano all’estero per lo Stato italiano o per organizzazioni internazionali a cui aderisce lo stato italiano;
  • persone con residenza fiscale in Italia determinata da accordi internazionali ratificati;
  • persone fisiche che lavorano continuativamente in zone di frontiera e Paesi limitrofi all’Italia. Essi dovranno compilare il modello RW in qualità di frontalieri.

Esoneri oggettivi

La normativa ha previsto anche casi in cui l’esonero sia di natura oggettiva, legato alle tipologie di detenzione o proprietà dei beni esteri.

La circolare n. 38/E/2013 ha ben specificato che, in base anche all’art. 4 comma 3 del D.L. n. 167/1990, come modificato dalla Legge n. 97/2013, non occorre dichiarare nel quadro RW:

  • le attività patrimoniali e finanziarie date in gestione o in amministrazione a soggetti terzi finanziari con residenza;
  • contratti che hanno prodotto redditi di natura finanziaria risolti con l’azione di intermediari finanziari residenti;
  • le attività patrimoniali e finanziarie i cui redditi sono incassati attraverso intermediari residenti.

Tali esoneri possono ritenersi validi quando i flussi finanziari derivanti da tali attività siano soggetti a ritenuta o imposta sostitutiva da parte degli intermediari con residenza.

5. Quali sono le attività estere da indicare nel quadro RW?

Vi sono due principali attività estere da indicare nel quadro RW: patrimoniali e finanziarie.

Per attività patrimoniali si intendono tutti quei beni che fungono da patrimonio all’estero posseduti da contribuenti residenti in Italia. Essi sono:

  • immobili posseduti all’estero;
  • oggetti preziosi;
  • opere d’arte;
  • imbarcazioni o altri beni mobili posseduti o registrati all’estero.

Affinché vi sia l’obbligo di dichiarazione dobbiamo essere in presenza di una capacità abbastanza proficua di produzione di reddito. Dette attività patrimoniali devono essere dichiarate nel quadro RW anche se non producono un effettivo reddito durante un dato periodo d’imposta.

Per attività finanziarie intendiamo invece quelle attività da cui derivano redditi di capitale o redditi diversi di natura finanziaria estera.

Esse sono:

  • depositi e conti correnti bancari originati all’estero;
  • conti correnti valutari;
  • criptovalute;
  • metalli preziosi posseduti all’estero;
  • le attività e gli investimenti detenuti all’estero attraverso soggetti che si trovano in paesi diversi da quelli collaborativi;
  • entità giuridiche italiane o all’estero, diverse dalle società, nel caso in cui il contribuente risulti essere l’effettivo titolare;
  • la partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti non aventi residenza;
  • le obbligazioni estere o titoli similari, i titoli pubblici e i titoli equiparati emessi all’estero, i titoli non rappresentativi di merce e i certificati di massa emessi da non residenti;
  • i diritti all’acquisto o sottoscrizione di azioni estere;
  • i contratti di natura finanziaria stretti con controparti non aventi residenza;
  • i contratti derivati e altri rapporti finanziari sottoscritti al di fuori dello stato italiano;
  • le forme di previdenza complementari gestite da soggetti esteri, escludendo quelle con obbligo di legge;
  • le polizze di assicurazione sulla vita e quelle di trasformazione del risparmio in reddito;
  • le attività finanziarie italiane possedute all’estero;
  • le attività finanziarie estere detenute in Italia al di là del circuito intermediario degli aventi residenza;

6. Nessun obbligo di monitoraggio fiscale e quadro RW per un protector di un trust residente all’estero

La persona fisica avente residenza in Italia e avente la funzione di protector (in italiano “guardiano”) di un trust con residenza estera, con un patrimonio esclusivamente esistente all’estero, non ha obblighi di monitoraggio fiscale in Italia.

L’Agenzia delle Entrate è pervenuta a tali conclusioni nella risposta a interpello n. 506 del 30 ottobre 2020.

In tale chiarimento, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il protector ha solo un potere atto a controllare le azioni del trustee (persona fisica o giuridica). Infatti, il suo operato era esercitato tramite un preventivo e obbligatorio consenso che il trustee era tenuto a ottenere dal guardiano per esercitare i poteri discrezionali attribuitigli dall’atto di trust (istituto con cui si costituisce il patrimonio). Quindi, il protector non può essere preso in considerazione come “titolare effettivo” del trust e, perciò, non è soggetto al monitoraggio.

L’Amministrazione Finanziaria ci ricorda che la disciplina sul monitoraggio fiscale ha lo scopo di assicurare un giusto e corretto pagamento degli obblighi relativi alle imposte collegato a stretto giro con investimenti all’estero e con attività estere finanziarie da parte di taluni soggetti residenti.

L’obbligo di monitoraggio, pertanto, sussiste quando siamo in presenza di una relazione giuridica tra il soggetto e le attività estere oggetto di dichiarazione. Quindi, l’obbligo sussiste non solo per i titolari delle attività detenute all’estero, ma anche per chi ha la disponibilità o la possibilità di movimentarle.

Quindi, il protector di un trust è una figura che non gode né dei redditi né del patrimonio del trust. Di solito, infatti, è un soggetto avente un ruolo:

  • di indirizzo dell’operato del trustee, cioè sostenere il trustee nel comprendere la totalità del programma stabilito dal disponente nell’atto d’istituzione del trust;
  • di garanzia per il patrimonio vincolato all’interno del trust, controllando anche l’operato del trustee e autorizzandone gli atti più importanti. Pertanto, è un soggetto che non ha alcun nesso e competenza nei confronti della titolarità e disponibilità del patrimonio oggetto di gestione da parte del trustee.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

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Interposizione fittizia in ambito tributario: 3 esempi!

Interposizione fittizia di società e interposizione fittizia di persona: i profili fiscali!

Quando un soggetto – titolare di redditi da assoggettare tassazione – trasferisce formalmente tali redditi ad un altro soggetto, con l’intento di fare apparire quest’ultimo agli occhi dell’Amministrazione Finanziaria come l’effettivo percipiente degli stessi, si realizza la c.d. interposizione fittizia in ambito tributario.

Più nello specifico, l’interposizione fittizia si realizza quando un soggetto chiamato interponente – che  il è titolare effettivo del reddito– attraverso una serie di atti giuridici sostituisce sé stesso, nell’ambito di detti redditi, con un altro soggetto (il cosiddetto interposto o prestanome).

1. Interposizione fittizia: 3 esempi

L’interposizione fittizia realizza una scissione tra il titolare effettivo di redditi e il titolare apparente. Vediamo alcuni esempi.

Esempio n. 1

Un esempio classico è quello di un contribuente persona fisica che appare al Fisco come socio unico di una s.r.l., ma che in realtà “presta il suo nome” ad un altro soggetto che è invece il socio principale di tale società (si tratta dell’interposizione fittizia di persona).

Esempio n. 2

Un altro esempio classico è quello di una persona fisica che appare al Fisco come amministratore o socio unico della società X s.r.l., ma che in realtà funge da prestanome ad un altro soggetto che è invece il vero amministratore o socio della società e che intende deresponsabilizzarsi in caso di verifica fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Esempio n. 3

Si pensi ad una persona fisica che ha acquistato in un dato comune una unità immobiliare per cui ha usufruito delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa, ma che in realtà funge da soggetto interposto ad un’altra persona fisica che ha già usufruito in quel dato comune delle medesime agevolazioni e che quindi non può più utilizzarle (anche qui si tratta dell’interposizione fittizia di persona).

Affinché possa concretizzarsi l’interposizione fittizia è necessario un accordo tra interposto e interponente, allo scopo di sottrarre quest’ultimo alla normativa fiscale e dai relativi obblighi.

L’interposizione fittizia può essere ricondotta nell’ambito dell’istituto giuridico della simulazione relativa, considerando che il fisco è, ovviamente, parte estranea all’accordo simulatorio. Ciò significa che l’accordo non può essere utilizzato con l’Amministrazione Finanziaria il cui scopo è invece quello di individuare il corretto soggetto percipiente del redito prodotto.

2. Controlli dell’Amministrazione Finanziaria

Se l’interposizione fittizia viene realizzata in ambito fiscale, l’ordinamento tributario – attraverso l’art. 37 DPR 600/1973 – attribuisce all’Agenzia delle Entrate la possibilità di imputare agli effettivi contribuenti i redditi di cui appaiono titolari invece altri soggetti.

L’Amministrazione Finanziaria, in sede di rettifica e accertamento d’ufficio delle dichiarazioni dei redditi, può correttamente ricondurre i redditi imputati al contribuente apparente in capo all’effettivo contribuente titolare di tali redditi.

È opportuno ricordare, inoltre, che il Fisco può assolvere ai propri compiti di controllo del rispetto della normativa fiscale anche attraverso l’esecuzione di accessiispezioni e verifiche.

L’attribuzione del reddito al reale titolare avviene mediante l’utilizzo di presunzioni gravi, precise e concordanti.

È importante evidenziare che è consentita la possibilità al contribuente di richiedere un parere all’Amministrazione Finanziaria per verificare se le disposizioni in questione si applichino alla propria specifica situazione.

3. Rimborso delle imposte già versate dall’interposto

Può accadere che il soggetto interposto abbia già pagato le imposte relative ai redditi che sono stati poi imputati all’interponente a seguito dei controlli operati dal fisco.

L’art. 37 DPR 29 settembre 1973 n. 600, prevede la possibilità per l’interposto di richiedere il rimborso di quanto versato, previa prova del pagamento effettuato.

L’Agenzia delle Entrate procederà al rimborso dopo l’avvenuta definizione dell’accertamento ed in misura non superiore all’imposta percepita.

4. Interposizione fittizia e interposizione reale

Nell’interposizione reale l’interposto si comporta come il reale contraente, trasferendo in periodo successivo all’interponente i diritti scaturiti dal contratto.

L’interposizione reale presuppone, quindi, un accordo tra interposto e interponente.

L’interposto, in virtù di tale accordo, risulta l’effettivo contraente ed è destinatario degli effetti del contratto. Obbligandosi a trasferire tali effetti all’ interponente con un ulteriore atto.

Le operazioni poste in essere dall’interposto sono, dunque, effettive reali e volute.

La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ravvisabile anche nell’ambito dell’interposizione reale un fine elusivo della normativa fiscale.

La Corte di Cassazione ha chiarito che per integrare un comportamento elusivo è sufficiente un uso improprio, non giustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico (cfr. le sentenze della Corte di Cassazione n. 21794/2014 e n. 26445/2018).

La Suprema Corte ha statuito che rileva anche il carattere reale e non simulato di una sequenza negoziale, se permette di superare il regime fiscale (cfr. la sentenza della Corte di Cassazione n. 5408 del 2017).

5. Elusione fiscale o abuso del diritto

Qualora l’Amministrazione Finanziaria non riesca a fornire la prova della realizzazione dell’interposizione fittizia attraverso l’utilizzo di presunzioni, la stessa ha comunque la possibilità di contestare al contribuente di aver posto in essere un abuso del diritto (o elusione fiscale).

La definizione normativa dell’abuso del diritto è contenuta nell’art. 10 bis Legge del 27/07/2000 n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). Tale norma attribuisce la possibilità all’Amministrazione Finanziaria di disconoscere operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

L’abuso del diritto è un modo di conseguire un vantaggio fiscale indebito attraverso il formale corretto rispetto della normativa fiscale.

Non ci troviamo in presenza di abuso del diritto quando le operazioni sono giustificate da valide ragioni extrafiscali realizzate per migliorare l’impresa o l’attività professionale.

In ogni caso è concessa la possibilità al contribuente di proporre interpello per verificare se la sua condotta rientri in un’ipotesi di abuso del diritto.

6. Interposizione fittizia di società

L’interposizione fittizia può realizzarsi anche quando l’interposto è rappresentato da una società.

L’attribuzione della titolarità dei redditi ad una società in luogo dell’effettivo titolare persona fisica può essere vantaggiosa per l’interponente in termini fiscali.

L’imposizione fiscale sul reddito delle persone fisiche, infatti, risulta più onerosa rispetto a quella gravante sulle società.

È quanto ha chiarito l’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 89/2020.

In tale risoluzione l’Agenzia delle Entrate ha analizzato il caso di un contribuente, già amministratore di due società, che aveva costituito una nuova società, di cui era amministratore unico e alla quale conferiva l’amministrazione delle due succitate società.

Il contribuente persona fisica, dunque, continuava ad amministrare le due società, per il tramite della nuova società da lui costituita.

La nuova società costituita fungeva, pertanto, da realtà interposta, occultando l’effettivo titolare, ossia la persona fisica interponente.

Attraverso questo meccanismo, i redditi delle due società non figuravano tra i redditi del contribuente persona fisica, con evidenti vantaggi dal punto di vista fiscale.

Nel caso di specie l’Agenzia delle entrate ha correttamente ricondotto i redditi della società interposta all’effettivo titolare persona fisica.

La tematica dell’interposizione fittizia è complessa e trasversale, potendo essere realizzata anche attraverso società fiduciarietrust e con interposti situati all’estero.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni espresse non necessariamente siano applicabili al tuo caso concreto.

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Stabile organizzazione di impresa: aspetti fiscali!

Stabile organizzazione in Italia, stabile organizzazione personale e stabile organizzazione occulta!

Se hai un’impresa all’estero e vuoi esercitare la tua attività anche in Italia devi necessariamente conoscere il concetto di stabile organizzazione per verificare se rientri in questa fattispecie e come devi comportarti dal punto di vista fiscale.

Puoi esercitare la tua attività in Italia non solo se stabilisci una sede fisica nel nostro Stato, ma anche se operi mediante persone che agiscono per conto della tua impresa estera.

Allo stesso modo se hai un’impresa in Italia e svolgi la tua attività economica in uno stato estero devi verificare se come stai operando in tale Stato.

1. La definizione

Quando un’impresa non residente fiscalmente in un dato Stato esercita la propria attività economica all’interno di detto Stato realizza una stabile organizzazione.

Secondo la definizione contenuta nell’art. 162 TUIR, l’attività economica dell’impresa estera può essere realizzata attraverso una sede stabile di affari o mediante persone che agiscono per conto dell’impresa. La sede fissa di affari della società estera può essere:

  • una sede di direzione;
  • una succursale;
  • un ufficio;
  • un’officina;
  • un laboratorio;
  • una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali.

La presenza economica della sede di affari collegata all’impresa non residente deve essere significativa e continuativa.

La definizione data dalla normativa italiana è conforme alla nozione contenuta all’art. 5 del modello di Convenzione dell’OCSE, dove la stabile è definita come una sede di affari fissa in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività.

È importante notare che lo sviluppo di attività economiche in ambito digitale consente ad una società estera di operare in Italia con piattaforme online che non prevedono una sede materiale sul territorio.

In proposito l’art 162 TUIR stabilisce alla lettera f-bis) che il concetto di stabile si riferisce anche ad “una significativa e continuativa presenza economica nel territorio dello Stato costruita in modo tale da non fare risultare una sua consistenza fisica nel territorio stesso.” Le attività svolte in Italia in ambito di economia digitale da società estere integrano, dunque, una stabile organizzazione e sono soggette al nostro regime fiscale.

2. I casi di esclusione

L’art. 162 TUIR definisce anche le casistiche in cui non si ha una stabile organizzazione.

In particolare, un cantiere di costruzione o di montaggio o di installazione, ovvero le attività di supervisione collegate, non sono casi di stabile organizzazione se l’attività ha una durata inferiore a tre mesi.

Sono escluse, inoltre, le ipotesi in cui l’impresa madre ha una sede in un altro Stato che utilizza per il deposito, l’esposizione o la consegna di beni o merci, oppure per immagazzinare beni o merci ai soli fini della trasformazione da parte di altra impresa, o se la sede di affari è utilizzata per acquistare beni o merci o per raccogliere informazioni per l’impresa.

Non configurano la fattispecie anche le attività esclusivamente di carattere preparatorio o ausiliario all’attività principale della casa madre.

3. Stabile organizzazione personale

La presenza economica di una impresa non residente nel nostro Stato può realizzarsi anche attraverso una stabile organizzazione personale.

In questo caso l’impresa estera conclude affari per mezzo di una persona fisica che agisce in nome e per conto dell’impresa, anche in assenza di una struttura materiale.

Si è in presenza di tale caso quando una persona fisica agisce nel territorio di uno Stato per conto dell’impresa non residente, concludendo contratti o negoziando (potendosi quindi considerare un agente dipendente). Si tratta, in particolare, di contratti:

  • stipulati dalla persona fisica in nome dell’impresa;
  • che riguardano il trasferimento della proprietà o la concessione del diritto di utilizzo di beni di tale impresa o che l’impresa ha il diritto di utilizzare;
  • che sono relativi alla fornitura di servizi da parte dell’impresa.

Non si ha stabile personale se la persona fisica agisce in modo indipendente dalla impresa madre e svolge la propria ordinaria attività.

4. Stabile organizzazione e rilevanza fiscale

Il concetto di stabile organizzazione è fondamentale per determinare se in un determinato Stato sono dovute le imposte sui redditi prodotti.

redditi prodotti dall’attività economica dell’impresa estera nel nostro Stato sono tassati secondo le nostre regole fiscali.

La società estera dovrà, quindi, pagare in Italia le imposte sui redditi prodotti dall’attività economica esercitata nel nostro Stato.

Se è invece una società italiana ad avere una stabile organizzazione all’estero, i redditi prodotti nel paese straniero devono essere dichiarati in Italia.

I redditi prodotti dalla stabile organizzazione italiana già tassati all’estero, possono essere detratti dalla casa madre italiana.

Per evitare una doppia imposizione fiscale, l’art. 165 TUIR prevede il riconoscimento di un credito d’imposta per le imposte già pagate dalla società italiana allo stato estero sui redditi ivi prodotti.

È stata stipulata, inoltre, una Convenzione contro le doppie imposizioni, per evitare o attenuare la possibilità di doppia imposizione per l’impresa madre per i redditi prodotti all’estero.

Gli ulteriori aspetti fiscali saranno affrontati specificamente nell’articolo dedicato alla stabile organizzazione IVA.

5. Stabile organizzazione occulta

Può accadere che una società estera, pur esercitando un’attività economica in maniera stabile in Italia, non dichiari al Fisco italiano i redditi prodotti da predetta attività.

Si ha in questo caso una stabile organizzazione occulta perché tale realtà è nascosta agli occhi del fisco italiano e non assolve ai propri obblighi fiscali e contributivi.

Il Fisco può individuarla attraverso elementi indiziari che facciano emergere il rapporto che intercorre tra l’impresa straniera e la sua sede in Italia (la cd. presunzione di stabile organizzazione).

Tali elementi sono rappresentati, ad esempio:

  • dall’identità delle persone fisiche che operano nell’impresa straniera rispetto a quella italiana;
  • dalla dipendenza e delle operazioni poste in essere dalla stabile organizzazione rispetto all’impresa madre;
  • dalla negoziazione e dalla conclusione di contratti per l’impresa madre a prescindere dal conferimento di poteri di rappresentanza.

La tematica della stabile organizzazione occulta è complessa e abbraccia la disciplina fiscale dei diversi stati in cui risiedono l’impresa madre e la sua sede di affari all’estero.

La conoscenza degli elementi tipici di questo istituto è necessaria per comprendere se si sta operando attraverso una stabile organizzazione e quali sono gli adempimenti fiscali da osservare.

6. Stabile organizzazione in Italia adempimenti

Una società estera che vuole aprire in Italia una stabile deve:

  1. istituire la sede secondaria mediante un apposito verbale e un apposito statuto che vanno depositati presso un notaio entro 45 giorni;
  2. nominare un rappresentante;
  3. attivare la PEC;
  4. procedere all’iscrizione presso il Registro delle Imprese;
  5. inviare il modello AA7/10 di inizio attività all’Agenzia delle Entrate;
  6. procedere ad effettuare le comunicazioni all’INAIL e/o INPS.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni espresse non necessariamente siano applicabili al tuo caso concreto.

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Dichiarazione integrativa a sfavore: quello che dovresti sapere

Dichiarazione integrativa a sfavore e ravvedimento operoso: la guida completa!

Se hai commesso un errore nella compilazione della dichiarazione dei redditi o nella compilazione della dichiarazione IVA della tua società – da cui deriva il minore versamento di imposte rispetto a quelle effettivamente dovute – e intendi correggere errori od omissioni, devi presentare una dichiarazione integrativa a sfavore.

Essa, in parole semplici, sostituisce la dichiarazione dei redditi originaria, rappresentando una versione corretta della stessa.

Dopo averla trasmessa, è necessario versare le maggiori imposte emergenti dalla correzione effettuata, usufruendo dell’applicazione ridotta delle sanzioni attraverso l’istituto del ravvedimento operoso (articolo13 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472).

1. Differenze tra dichiarazione integrativa a sfavore e dichiarazione integrativa a favore

La presentazione della dichiarazione integrativa serve per correggere, in via esemplificativa, due tipologie di errori.

Errori a sfavore del contribuente: si tratta di errori od omissioni da cui deriva il pagamento di  maggiori imposte.

Errori a favore del contribuente: si tratta di errori od omissioni da cui deriva un minore versamento di imposte ovvero da cui deriva il riconoscimento di un maggiore credito di imposta.

Da tali errori od omissioni possono scaturire due tipologie distinte di dichiarazione integrativa:

  • dichiarazione integrativa a sfavore del contribuente;
  • dichiarazione integrativa a favore del contribuente.

2. Termini entro cui presentarla

L’Amministrazione finanziaria può sottoporre una società ad accertamento fiscale fino al 31 dicembre del quinto anno successivo rispetto a quello in cui è stata presentata la dichiarazione dei redditi o la dichiarazione IVA, per poter contestare gli errori od omissioni compiute.

Nell’ipotesi di omessa dichiarazione dei redditi e IVA, il termine di decadenza dell’accertamento risulta prorogata al settimo anno successivo rispetto a quello in cui avresti dovuto presentare la dichiarazione, attesa la maggiore difficoltà che l’Agenzia delle Entrate ha nell’operare una verifica o un controllo fiscale a seguito di tale omissione.

È importante notare che solo nell’ipotesi in cui tu abbia inviato correttamente la dichiarazione (e non nel caso di omessa dichiarazione), potrai inviare la dichiarazione integrativa a sfavore entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, mediante la trasmissione telematica all’Agenzia delle Entrate (anche con intermediario autorizzato).

3. Sanzioni dichiarazione integrativa

La normativa fiscale prevede due tipologie diverse di sanzione in sede di presentazione della dichiarazione integrativa. Esse sono:

  • sanzione amministrativa per mancati e/o omessi versamenti;
  • sanzione amministrativa per infedele dichiarazione.

Di seguito analizzeremo le loro caratteristiche.

3.1. Sanzione amministrativa per mancati e/o omessi versamenti

In questo caso ti sarà applicata una sanzione amministrativa del 30%, calcolato avendo come punto di riferimento le maggiori imposte dovute o il minor credito generato ai sensi dell’articolo 13 del D. Lgs. n. 471 del 1997 inerente ai ritardati od omessi versamenti diretti e altre tipologie di violazioni in materia di compensazione. È importante notare che questa sanzione trova esclusivamente applicazione qualora gli errori siano rilevabili in sede di controllo formale.

3.2. Sanzione amministrativa per infedele dichiarazione

Invece, qui ti troverai di fronte a una sanzione amministrativa che va dal 90% al 180% (cfr. le norme contenute nel D. Lgs. n. 471 del 1997), rispetto le maggiori imposte dovute o rispetto al minor credito generato. È importante notare che questa sanzione trova esclusivamente applicazione qualora gli errori siano rintracciabili solo in fase di accertamento.

Solitamente questa sanzione è applicata quando si erra nell’indicare dei redditi o delle ritenute, degli oneri deducibili o detraibili.

4. Dichiarazione integrativa a sfavore e ravvedimento operoso

Dopo aver analizzato le varie modalità sanzionatorie applicabili alla dichiarazione integrativa è doveroso ricordare che tali sanzioni possono essere ridotte attraverso lo strumento del ravvedimento operoso, ex art. 13 del D. Lgs. n. 472 del 1997.

Tutto il procedimento deve essere utilizzato e ultimato entro i termini visti sopra per la presentazione della dichiarazione integrativa, corrispondenti ai termini dei controlli di accertamento per l’Agenzia delle Entrate.

Per effettuare il ravvedimento operoso occorre versare la maggiore imposta reddituale dovuta (o IVA), gli interessi e le sanzioni (pari al 30% o al 90% della maggiore imposta come precedentemente accennato) e successivamente calcolare le riduzioni.

5. Le riduzioni applicate con il ravvedimento operoso

Ove tu voglia presentare una dichiarazione integrativa a sfavore con l’istituto del ravvedimento operoso potrai usufruire di:

  • una riduzione pari a 1/9 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata entro i 90 giorni dalla scadenza;
  • una riduzione pari a 1/8 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata oltre i 90 giorni, ma entro i termini di un anno;
  • una riduzione pari a 1/7 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata entro i due anni;
  • una riduzione pari a 1/6 del 90% delle maggiori imposte dovute, se la dichiarazione integrativa è presentata oltre i due anni, ma nei termini della fase di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate;
  • una riduzione pari a 1/5 del 90% delle maggiori imposte dovute se la dichiarazione integrativa è presentata dopo la contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria.

6. Il maggior termine di accertamento in caso di dichiarazione

Nelle ipotesi di dichiarazione integrativa a sfavore, è importante prestar fede ai termini di accertamento.

Quando un contribuente – mediante l’istituto del ravvedimento operoso – presenta una dichiarazione integrativa a sfavore, la normativa fiscale prevede infatti un allungamento del termine di decadenza con riferimento agli elementi che sono stati modificati in sede di integrativa.

Se, ad esempio, il contribuente ha modificato nel 2021 il rigo VE24 della dichiarazione IVA relativa all’anno 2017, conseguendone un maggior debito in termini di IVA, l’Amministrazione Finanziaria potrà procedere all’accertamento:

  • della dichiarazione IVA relativa all’anno 2017 entro il 31 dicembre del 2023;
  • del rigo VE24della dichiarazione IVA integrativa a sfavore entro il 31 dicembre 2026.  

È da notare che tale allungamento dei termini di accertamento è valido solo per le dichiarazioni integrative a sfavore, cioè quelle che determinano una maggiore imposta o un minor credito d’imposta.

7. Come compilarla il documento

Per presentare una dichiarazione integrativa a sfavore, devi compilare alcuni quadri della dichiarazione.

Devi barrare il codice 1 – entro il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione – se è inviata di tua spontanea volontà per:

  • modificare errori od omissioni che abbiano determinato l’indicazione di un maggior o minor reddito;
  • correggere un maggior o minor debito d’imposta;
  • correggere un maggior o minor credito.

Devi barrare il codice 2 se, invece, la stessa è presentata a seguito di una comunicazione di irregolarità inviata dall’Amministrazione Finanziaria.

L’Agenzia delle Entrate, infatti, mette a disposizione dei contribuenti informazioni rilevate direttamente o acquisiste da terzi. Con questa modalità è offerta ai contribuenti la possibilità di modificare volontariamente l’omissione o l’errore commesso.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni, compila il form di contatto.

Interpelli Agenzia Entrate: efficacia anche per parti correlate

Le risposte agli interpelli dell’Agenzia delle Entrate si applicano alle controparti dell’istante!

L’articolo11, comma 3, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che la risposta agli interpelli dell’Agenzia delle Entrate vincola solo il richiedente.

Con la recente ordinanza 30 marzo 2021, n. 8740, la Corte di Cassazione effettua un’interpretazione estensiva della suddetta norma, ritenendo applicabile ed efficace la risposta data dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di interpello anche alle parti contrattuali del proponente.

1. Interpello Agenzia delle Entrate: l’ordinanza della Cassazione 30 marzo 2021, n. 8740

Con l’ordinanza n. 8740 del 30 marzo 2021, la Corte di Cassazione ha esaminato il caso di una società attiva specializzata nel settore degli impianti fotovoltaici, alle cui cessioni ha applicato l’aliquota IVA agevolata del 10%.

L’Agenzia delle Entrate ha notificato alla predetta società un avviso di accertamento, con il quale ha contestato l’applicazione agevolata dell’IVA al 10% alle cessioni di impianti fotovoltaici effettuate dalla società, richiedendo il pagamento della maggiore IVA, oltre interessi e sanzioni.

Nell’ambito del processo di primo e secondo grado, la Società – contestando l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate – ha fatto leva sull’interpretazione rilasciata dall’Agenzia delle Entrate in risposta ad alcuni interpelli, emessi nei confronti di alcune parti contrattuali della società istante, nei quali l’applicazione dell’IVA agevolata del 10 per centro sembrerebbe essere stata ritenuta corretta dalla Commissione Tributaria Provinciale e Regionale.

2. Interpelli Agenzia delle Entrate: la risposta ha efficacia anche per le controparti dell’interpellante

La Corte di Cassazione – nel respingere il ricorso per Cassazione dell’Agenzia delle Entrate – nella recentissima ordinanza n. 8740 del 30 marzo 2021 ha fornito un’interpretazione innovativa dell’articolo 11, comma 3, dello Statuto dei diritti del contribuenti, molto attesa dagli operatori del settore.

In particolare, la Corte di Cassazione – nel richiamarsi al terzo comma dell’articolo 11 dello Statuto dei diritti del contribuente – ha affermato che l’efficacia vincolante della risposta “pur non trovando applicazione, in via generale, in relazione a casi analoghi relativi a soggetti diversi dall’interpellante” può trovare applicazione “anche a soggetti, diversi da quest’ultimo, che, in relazione all’atteggiarsi e alla struttura della fattispecie impositiva, nonché all’allocazione dei relativi obblighi, sono indissolubilmente legati alla questione investita dall’interpello (e della relativa risoluzione o circolare dell’Amministrazione)”.

Secondo il Giudice delle leggi, tale soluzione è applicabile al caso esaminato “in cui la questione oggetto dell’interpello interessa l’individuazione dell’aliquota i.v.a. applicabile ad un’operazione di cessione di beni, inconsiderazione della idoneità del contenuto della risposta dell’Amministrazione ad interessare sia il cedente, sia il cessionario, avuto riguardo al modularsi degli obblighi di fatturazione, di versamento dell’imposta e di rivalsa dell’imposta applicata”.

3. Efficacia interpelli Agenzia Entrate: considerazioni finali

La soluzione data dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza in commento appare giusta, oltre che di buon senso.

Sotto tale aspetto appare auspicabile una apertura della giurisprudenza anche di merito in tal senso, al fine di estendere l’efficacia della risposta all’istanza di interpello anche ai soggetti contrattualmente correlati al soggetto istante limitatamente alla fattispecie rappresentata nell’istanza.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Accertamento fiscale: cos’è, come funziona e come difendersi

In questo articolo spieghiamo cos’è, come funziona e come ci si può difendere quando si riceve la notifica di un accertamento fiscale.

Appare anche utile, al riguardo, consultare sul punto le informazioni contenute nel sito dell’Agenzia delle Entrate.

1. Accertamento fiscale: cos’è?

L’accertamento fiscale è un atto di natura amministrativa e tributaria emesso dall’Agenzia delle Entrate.

Con tale atto, l’Agenzia delle Entrate richiede formalmente al contribuente maggiori imposte – oltre sanzioni e interessi – rispetto a quelle da questo pagate all’erario mediante la presentazione della dichiarazione dei redditi.

Tale atto è emesso nei confronti di un determinato contribuente (persona fisica o azienda), ove a seguito di una verifica fiscale o di un controllo fiscale emerga una forma di evasione fiscale – e può essere notificato:

  • presso la residenza o il domicilio del contribuente (in caso di persona fisica);
  • presso la sede legale (nel caso di società o enti equiparati).

L’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate può essere notificato:

  • mediante ufficiale giudiziario presso il domicilio, la residenza o la sede legale (per le società) del contribuente;
  • mediante raccomandata A/R;
  • mediante PEC.

2. Accertamento fiscale: come funziona?

Come funziona l’accertamento fiscale?

L’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate è formato da più parti, ognuna di fondamentale importanza.

  • Intestazione: è la parte che indica l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto e il contribuente cui lo stesso è intestato.
  • Motivazione dell’avviso di accertamento: è la parte forse fondamentale dell’accertamento fiscale. Si tratta della parte in cui l’Ufficio rende note al contribuente le motivazioni sula base delle quali è dovuta una maggiore imposta. Nell’ipotesi in cui l’Ufficio non spieghi bene le ragioni poste a fondamento della verifica fiscale potrebbe configurarsi un vizio di motivazione dell’avviso di accertamento.
  • Calcoli: è la parte dell’accertamento fiscale in cui vengono effettuati i calcoli della maggiore imposta dovuta dal contribuente con le relative sanzioni e interessi.

3. Accertamento fiscale: come risolvere!

L’ordinamento tributario prevede diversi modi che consentono al contribuente di trovare una soluzione quando questi riceve la notifica di un accertamento fiscale. Li vediamo qui di seguito.

  • Acquiescenza dell’avviso di accertamento: se il contribuente rinuncia a presentare un ricorso tributario, può definire la pretesa erariale mediante il pagamento delle imposte dovute, ottenendo la riduzione delle sanzioni a un terzo.
  • Definizione agevolata delle sole sanzioni: il contribuente può definire le sole sanzioni, riservandosi la possibilità di presentare un ricorso tributario avverso l’avviso di accertamento solo per le maggiori imposte. Le sanzioni già versate non possono essere rimborsate.
  • Istanza di accertamento con adesione: il contribuente, entro il termine di 60 giorni dalla notifica dell’accertamento tributario, può presentare istanza di accertamento con adesione, al fine di addivenire ad un accordo con l’Ufficio in merito all’imposta dovuta. In caso di accordo, le sanzioni sono ridotte a un terzo. È importante notare che si può presentare istanza di accertamento con adesione anche se il contribuente ha definito le sole sanzioni (vedi precedente punto 2).
  • Autotutela tributaria: il contribuente può richiedere il riesame dell’accertamento fiscale all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto mediante la presentazione di un’istanza di autotutela tributaria. È importante rammentare che la presentazione dell’istanza non sospende la decorrenza dei termini per la presentazione del ricorso tributario.

Ci sono altresì ulteriori aspetti da considerare. Ne parliamo in questo video.

https://youtube.com/watch?v=J3EPLMET6vY%3Fstart%3D11

4. Accertamento fiscale come difendersi: il ricorso tributario

Come ci si può difendere dall’accertamento fiscale?

Se il contribuente non presta acquiescenza all’avviso di accertamento, non presenta istanza di accertamento con adesione o non raggiunge nell’ambito di tale procedura un accordo con l’Ufficio, per evitare che la pretesa diventi definitiva deve presentare un ricorso tributario.

Il ricorso tributario deve essere presentato entro il termine di 60 giorni dalla notifica o entro il termine di 150 giorni dalla notifica dell’atto di accertamento se è stata presentata istanza di accertamento con adesione.

Il ricorso tributario deve essere depositato in Commissione Tributaria entro 30 giorni dalla notifica all’Agenzia delle Entrate, a pena di improcedibilità dello stesso.

Per le controversie tributarie che hanno un valore non superiore a 50.000 euro, il ricorso tributario produce anche gli effetti un ricorso-reclamo e può contenere una proposta di mediazione tributaria con richiesta di rideterminazione della pretesa. In tal caso il contribuente non può costituirsi in giudizio prima che siano trascorsi 90 giorni dalla notifica del ricorso reclamo, a pena di improcedibilità del ricorso stesso.

5. Scadenza accertamenti fiscali

La notifica di un accertamento fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate è soggetta al rispetto di determinati termini di decadenza, trascorsi i quali l’Ufficio non può più procedere alla notifica dell’avviso di accertamento.

Qui di seguito vediamo quali sono i termini di prescrizione dell’accertamento fiscale.

Occorre considerare due ipotesi.

  • Il contribuente ha presentato le dichiarazioni fiscali (ai fini delle imposte dirette e dell’IVA): in tal caso l’avviso di accertamento deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.
  • Il contribuente non ha presentato le dichiarazioni fiscali (ai fini delle imposte dirette e dell’IVA): in tal caso l’avviso di accertamento deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione.

È importante notare che l’Agenzia delle Entrate, entro la scadenza del termine di decadenza, può integrare o modificare l’accertamento fiscale notificato al contribuente mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell’Agenzia delle entrate.

In tal caso, nell’accertamento fiscale devono essere indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell’ufficio delle imposte.

L’amministrazione finanziaria se non rispetta i suddetti termini decade dalla potestà impositiva, non potendo più notificare alcunché al contribuente.

6. Tabella sulla prescrizione dell’accertamento fiscale

Ai fini di una migliore comprensione dell’argomento evidenziato nel precedente paragrafo, qui di seguito alleghiamo una tabella sulla prescrizione dell’accertamento fiscale.

Tabella prescrizione accertamento fiscale

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

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Se hai necessità di maggiori informazioni puoi inviarci una mail all’indirizzo 4tax.it@4tax.it o compilare il form di contatto qui sotto.

Istanza di accertamento con adesione: come fare?

Se un contribuente ha ricevuto un avviso di accertamento può presentare un’istanza di accertamento con adesione ed attivare il relativo procedimento.

Il procedimento di accertamento con adesione è uno degli strumenti “deflattivi” del contenzioso tributario, il cui obiettivo è quello di favorire un accordo tra contribuente e fisco al fine di evitare l’insorgenza di una lite tributaria.

Per saperne di più, clicca qui e guarda il nostro video.

1. La normativa

La normativa relativa al procedimento di accertamento con adesione è contenuta nell’articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. Tale norma attribuisce al contribuente – sottoposto ad accessi, ispezioni o verifiche fiscali – la possibilità di presentare un’istanza ai fini della formulazione da parte dell’Agenzia delle Entrate della proposta di accertamento con adesione.

La possibilità di presentare istanza di accertamento con adesione, sulla base del comma 2 dell’articolo 6, è attribuita anche al contribuente a cui sia stato notificato un avviso di accertamento.

La procedura può essere avviata direttamente dal contribuente mediante una domanda in carta libera in cui chiede all’ufficio di formulargli una proposta di accertamento che tenga conto delle osservazioni documentate formulate nella domanda. L’ufficio competente a cui inviare la domanda è quello in cui il contribuente ha il domicilio fiscale, e che ha verosimilmente emesso l’avviso di accertamento.

2. Ambito di applicazione

L’istanza di accertamento con adesione può essere utilizzata da tutti coloro i quali abbiano ricevuto un atto impositivo da parte dell’Amministrazione Finanziaria: persone fisiche, persone giuridiche, associazioni professionali, sostituti d’imposta ed enti.

Possono essere definite nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione tutte le principali imposte dirette (IRPEF, IRES, IRAP), ed indirette (Iva, Imposta sulle successioni e sulle donazioni, Imposta di registro, Imposta ipotecaria e catastale, Imposta sostitutiva sulle operazioni di credito, Imposta erariale di trascrizione e addizionale regionale all’imposta erariale di trascrizione, Imposta provinciale sull’immatricolazione di nuovi veicoli).

Accertamento con adesione tributi locali: è importante evidenziare che non è sempre possibile instaurare un procedimento di accertamento con adesione quando si è in presenza di tributi locali. Occorre al riguardo infatti preliminarmente prendere visione del regolamento del Comune che ha notificato l’avviso di accertamento.

3. Il contraddittorio

Nell’ambito del procedimento instaurato mediante la presentazione di un’istanza di accertamento con adesione un ruolo di fondamentale importanza è rivestito dal contraddittorio, necessario se si intende pervenire ad un accordo di adesione con l’Ufficio.

Sulla base del comma 4 dell’articolo 6 del decreto n. 218 del 1997, l’ufficio, una volta ricevuta l’istanza di accertamento con adesione, deve formulare al contribuente un invito a comparire entro quindici giorni dalla data di presentazione dell’istanza stessa, anche tramite contatto telefonico.

È importante quindi inserire nella domanda di adesione tutte le informazioni anagrafiche del contribuente e i relativi recapiti telefonici al fine di snellire l’iter.

4. Accertamento con adesione: i termini

Sulla base del comma 3 dell’articolo 6 del decreto n. 218 del 1997, l’instaurazione del procedimento di accertamento con adesione deve essere effettuata entro 60 giorni dalla ricezione dell’atto impositivo.

Se l’invio dell’istanza avviene per posta ordinaria, fa fede la data di ricezione da parte dell’ufficio, mentre se l’invio avviene tramite posta raccomandata, allora fa fede la data di spedizione della domanda. È importante evidenziare che è possibile procedere alla notifica dell’istanza anche via PEC.

La presentazione dell’istanza di accertamento con adesione comporta la sospensione dei termini, per un periodo di 90 giorni, per la presentazione del ricorso tributario.

Ove quindi entro tali 60 giorni il contribuente decida di optare per la presentazione di un’istanza di accertamento con adesione, il termine per proporre ricorso in Commissione Tributaria sarebbe pari a 150 giorni complessivi (60 giorni + il termine di sospensione di 90 giorni).

La sospensione dei termini prevista per il procedimento di accertamento con adesione è cumulabile con il periodo di sospensione di feriale, previsto dal 1 al 31 agosto, ogni qualvolta il periodo di sospensione di 90 giorni ricade, come termine iniziale o come termine finale, tra il 1° e il l 31 agosto.

5. Sanzioni applicabili

Ove le parti – nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione – raggiungano un accordo, il contribuente può usufruire di una riduzione delle sanzioni amministrative pari ad 1/3 del minimo previsto dalla legge.

È importante notare, al riguardo, che la riduzione delle sanzioni a 1/3 trova applicazione non in relazione alla sanzione applicata dall’Ufficio nell’avviso di accertamento mediante il cumulo giuridico o mediante al cumulo materiale (se inferiore al cumulo giuridico), ma con riferimento al minimo di tutte le sanzioni previste.

6. Perfezionamento dell’accertamento con adesione

Ove il contribuente – dopo aver avviato il procedimento mediante la presentazione dell’istanza di accertamento con adesione  raggiunga un accordo di eventuale definizione con l’ufficio in merito alle imposte dovute, si rende necessario procedere con la sottoscrizione dell’atto di adesione.

È bene precisare però che il perfezionamento dell’accertamento con adesione (con i relativi effetti agevolativi) si ha solo al momento del pagamento delle somme risultanti dall’accordo di adesione, o al momento del pagamento della prima rata (qualora il contribuente abbia optato per il pagamento rateale).

Il pagamento delle somme definite nell’accordo deve avvenire mediante modello F24 in un’unica soluzione entro 20 giorni dalla firma del perfezionamento dell’accordo di adesione, ovvero in forma rateale mediante rate trimestrali, di cui la prima da pagare entro 20 giorni dalla firma dell’accordo stesso.

Il numero massimo delle rate è di 16 qualora l’importo da pagare sia superiore di 50 mila euro, mentre sarà di 8 rate successive trimestrali qualora dall’accordo emergesse un importo inferiore a 50 mila euro. Sulle somme rateizzate sono dovuti gli interessi calcolati dal giorno successivo al pagamento della prima rata.

Per il pagamento del dovuto (sia in unica soluzione che in forma rateale) è possibile utilizzare in compensazione eventuali crediti compensabili.

7. Effetti penali

L’accertamento con adesione estingue il reato?

L’articolo 13 del D. Lgs. n. 74 del 2000 prevede alcune cause di non punibilità dei reati commessi dal contribuente ove questi perfezioni con l’Ufficio accertatore un accordo nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione.

In particolare, non è punibile, in caso di perfezionamento dell’accertamento con adesioneil reato di:

  • omesso versamento di ritenute (articolo 10-bis del D. Lgs. n. 74 del 2000);
  • omesso versamento IVA (articolo 10-ter del D. Lgs. n. 74 del 2000);
  • indebita compensazione di crediti non spettanti (articolo 10-quater del D. Lgs. n. 74 del 2000).

È importante evidenziare che, fuori dai casi di non punibilità di cui all’articolo 13 del D. Lgs. n. 74 del 2000, nelle ipotesi in cui si pervenga al perfezionamento dell’accertamento con adesione prima dell’apertura del dibattimento di primo grado le pene per i delitti disciplinati dal predetto D. Lgs n. 74 del 2000 sono ridotte alla metà.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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Cancellazione società dal registro imprese e debiti tributari

Società cancellata e debiti tributari: soci responsabili mentre il liquidatore risponde in proprio

La liquidazione con conseguente cancellazione di società dal registro imprese rappresenta un momento di particolare complessità, soprattutto in presenza di debiti tributari.

Ove successivamente alla cancellazione dal registro delle imprese vengano riscontrate dall’Agenzia delle Entrate violazioni fiscali sulla base di un controllo fiscale ovvero di una verifica fiscale, delle conseguenze molto importanti potrebbero derivare per i soci, per gli amministratori e per il liquidatore.

1. Cancellazione di società dal registro delle imprese: la disciplina

La disciplina relativa alla cancellazione di società dal registro imprese è contenuta:

  • nel primo comma dell’art 2495 cc che prevede l’obbligo di cancellazione della società dal registro delle imprese, una volta approvato il bilancio finale di liquidazione;
  • nell’articolo 2495 comma 2 cc secondo cui a seguito della cancellazione della società i creditori possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, sulla base delle somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori;
  • nell’articolo 28, comma 4, del decreto legislativo 21 novembre 2014, n. 175, c.d. “decreto semplificazioni”), che introduce una deroga all’ordinaria disciplina dell’estinzione delle società di capitali di cui al secondo comma dell’art 2495 cc, prevedendosi che per l’Agenzia delle Entrate l’estinzione della società ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese;
  • nell’articolo articolo 36, primo comma, del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, che prevede una responsabilità inerente ai debiti tributari della società cancellata per i soci, gli amministratori e i liquidatori una volta avvenuta la cancellazione dal registro delle imprese.

2. Gli effetti della cancellazione di società dal registro imprese

La cancellazione della società dal registro delle imprese è disciplinata dall’articolo 2495 cc.

Secondo il primo comma di tale norma il liquidatore che approva il bilancio finale di liquidazione deve chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Successivamente alla cancellazione, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.

Sulla base della predetta disposizione, la cancellazione della società dal registro delle imprese ha efficacia costitutiva.

Nella sentenza 19 aprile 2018, n. 9672, la Corte di Cassazione – richiamandosi al suo precedente orientamento a Sezioni Unite – ha affermato che sono “sempre i soci coloro che sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata (ma non definiti all’esito della cancellazione) a prescindere dall’aver questi goduto o meno di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione”.

I soci, in sostanza, subentrano nei rapporti giuridici riconducibili alla società estinta.

3. Estinzione della società e Agenzia delle Entrate: profili fiscali

Sotto il profilo fiscale si perviene a differenti considerazioni.

L’articolo 28, comma 4, del decreto semplificazioni introduce infatti una deroga all’ordinaria disciplina dell’estinzione delle società di capitali di cui all’art 2495 cc prevedendosi che l’estinzione della società ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese.

Questo significa che ove vengano individuate dal Fisco delle irregolarità per le quali si rende necessaria l’emissione di un avviso di accertamento a carico della società estinta, questo potrebbe essere notificato ben 5 anni dopo la cancellazione dal registro delle imprese.

Con la disposizione di cui all’articolo 28, comma 4 del decreto semplificazioni, il legislatore ha quindi inteso preservare la possibilità per l’Amministrazione Finanziaria di esercitare il proprio potere impositivo nei confronti di società estinte al fine di effettuare un controllo fiscale in relazione alle annualità in cui avviene l’estinzione e le precedenti.

Se, quindi, con specifico riferimento al profilo civilistico, la cancellazione dal registro delle imprese ha un effetto estintivo immediato sul piano tributario l’estinzione della società è sospesa per un periodo di cinque anni.

Al riguardo la Commissione Tributaria Provinciale di Benevento con l’ordinanza 13 marzo 2019, n. 142 ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 4, del decreto semplificazioni.

Ad avviso della Commissione Tributaria Provinciale di Benevento tale norma viola il principio di uguaglianza. Il differimento dell’efficacia dell’estinzione della società per i soli rapporti con l’amministrazione finanziaria costituisce un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto agli altri creditori sociali, per i quali l’estinzione di una società coincide invece con la sua cancellazione dal registro delle imprese.

4. Il liquidatore risponde in proprio dei debiti tributari

Secondo l’articolo 36, comma 1, del dpr. n. 602 del 1973, il liquidatore risponde in proprio del pagamento delle imposte se non prova di aver pagato i debiti tributari prima dell’assegnazione dei beni della società estinta ai soci o agli associati.

E’ importante notare che la responsabilità del liquidatore è parametrata esattamente all’importo dei crediti tributari che avrebbero trovato soddisfacimento sulla base del riparto finale previsto dal bilancio finale di liquidazione.

5. Debiti tributari: la responsabilità dei soci e degli associati

Nell’ipotesi in cui, successivamente alla cancellazione di una società dal registro delle imprese, l’Agenzia delle Entrate ravvisi l’esistenza di violazioni fiscali è prevista una responsabilità dei soci e degli associati per i debiti tributari.

In particolare, i soci o associati sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dalla società estinta, se hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro dagli amministratori o se hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione (articolo 36, primo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602).

E’ importante evidenziare che la responsabilità dei soci e degli associati dei debiti tributari accertati a carico della società estinta non è limitata a quanto da questi percepiti sulla base del bilancio finale di liquidazione , ma si estende all’ammontare complessivo del debito accertato in percentuale alla quota di partecipazione che ogni socio ha nella società cancellata.

6. Cancellazione società e notifica dell’avviso di accertamento

Dove deve essere notificato l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate destinato alla società cancellata dal registro imprese?

Con riferimento a tale domanda utili chiarimenti al riguardo sono stati dati emanati dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 19 febbraio 2015, n. 6/E.

Al riguardo l’Agenzia delle Entrate ha affermato che l’avviso di accertamento contenente la rettifica della dichiarazione della società cancellata dal Registro delle imprese deve emesso nei confronti della società “cancellata”.

In questo caso, l’accertamento fiscale deve essere notificato alla società estinta presso la sede dell’ultimo domicilio fiscale in quanto, a tal fine, l’effetto dell’estinzione come abbiamo detto si produrrà sotto il profilo tributario solo dopo cinque anni dalla data della cancellazione.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, a tal fine la società cancellata può eleggere domicilio presso il comune in cui aveva il domicilio fiscale prima dell’estinzione.

7. Cancellazione registro imprese delle società di persone: gli effetti

Tutte le considerazioni esposte nei precedenti paragrafi possono essere applicabili anche alla cancellazione di società di persone.

Anche in tal caso, infatti, la responsabilità dei soci è la medesima che è riscontrabile nelle ipotesi di cancellazione ed estinzione di società di capitali.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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La sottoscrizione della cartella di pagamento

La mancata sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del responsabile del procedimento è un argomento molto dibattuto.

Con questo articolo analizziamo la normativa oggi vigente, anche alla luce della recente giurisprudenza della Corte di Cassazione e delle Commissioni tributarie.

1. La sottoscrizione della cartella di pagamento: la disciplina

I requisiti che deve obbligatoriamente contenere la cartella di pagamento è contenuto nell’articolo 6 del Decreto ministeriale 3 settembre 1999, n. 321, secondo cui “il contenuto minimo della cartella di pagamento è costituito dagli elementi che, ai sensi dell’art. 1, commi 1 e 2, devono essere elencati nel ruolo, ad eccezione della data di consegna del ruolo stesso al concessionario e del codice degli articoli di ruolo e dell’ambito”.

Il ruolo, sulla base dell’articolo 1, comma 1, del decreto interministeriale n. 321, deve contenere l’indicazione dei seguenti dati:

  • il creditore;
  • la tipologia di ruolo (ordinario o straordinario);
  • i dati del debitore;
  • il codice di ogni componente del credito, di seguito denominata articolo di ruolo;
  • il codice dell’ambito;
  • l’anno o il periodo di riferimento del credito;
  • le somme dovute per ogni ruolo;
  • l’ammontare complessivo delle somme indicate nel ruolo;
  • le modalità di riscossione del ruolo;
  • l’indicazione della data in cui viene dato all’ Agente della riscossione.

Sulla base del comma 2 dell’articolo 1 del decreto ministeriale 321 del 1999 è poi necessario menzionare per ciascun contribuente, anche l’indicazione sintetica degli elementi sulla base dei quali è stata effettuata l’ iscrizione a ruolo.

Nel caso in cui l’iscrizione a ruolo derivi da un atto precedentemente notificato (accertamento Agenzia delle Entrate o sentenze Commissione tributaria), devono essere indicati gli estremi di tale atto e la relativa data di notifica.

La normativa ad oggi vigente non prevede a pena di nullità il requisito della sottoscrizione della cartella esattoriale, che deve essere predisposta secondo il modello approvato e sulla base del decreto del ministero competente.

Per completezza occorre ricordare che ciò non vale per l’avviso di accertamento. Sulla base dell’articolo 42 del dpr n 600 del 1973 in tema di imposte sui redditi, la mancata sottoscrizione del funzionario responsabile comporta la nullità dell’avviso di accertamento.

La corretta notificazione della stessa cartella di pagamento non appare quindi poter essere messa in dubbio a seguito della mancata di sottoscrizione che non è un elemento necessario per legge a pena di nullità.

2. La sottoscrizione della Cartella di pagamento: la giurisprudenza di merito e della Corte di Cassazione

Le conclusioni cui si perviene sulla base della normativa sono confermate dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Nella sentenza 14 aprile 2020, n. 7800, la Corte di Cassazione ha chiarito che la mancata sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del responsabile del procedimento non comporta l’illegittimità della cartella stessa. Seguendo tale interpretazione, la Corte di Cassazione ha evidenziato come l’esistenza della cartella di pagamento non dipenda dall’apposizione di una firma leggibile, quanto dalla circostanza che la stessa sia in concreto – e non in astratto – riferibile all’ente impositivo che ha il potere di emetterla. La Corte di Cassazione ritiene che ciò sia avvalorato dal fatto che la cartella di pagamento e il ruolo devono essere predisposti sulla base delle informative e del modello approvato con decreto dal Ministero delle Finanze, che non prevedono la sottoscrizione come requisito essenziale a pena di nullità.

Alle medesime conclusioni è pervenuta la Corte di Cassazione nella sentenza 23 aprile 2020, n. 8081.

Il suddetto orientamento è stato poi recepito dalla recente giurisprudenza di merito. La sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli del 24 settembre 2020, n. 606 – facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione di cui abbiamo detto – ha escluso che “l’eventuale mancanza della firma digitale possa infirmare la legittimità della cartella di pagamento impugnata“.

Alla luce di quanto sopra osservato, la giurisprudenza è ferma nel ritenere come la mancata sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del responsabile del procedimento competente non comporti l’invalidità dell’atto.

La Corte Costituzionale nella sentenza n. 117 del 2000, ha affermato che costituisce “diritto vivente” il principio in base al quale “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi previsti dalla legge, ed è regola sufficiente che dai dati contenuti nel documento sia possibile individuare con certezza l’Autorità da cui l’atto proviene”.

La mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento non incide in alcun modo sulla validità dell’atto stesso, fatta eccezione per i casi in cui la sanzione della nullità è espressamente contemplata per il caso di omessa sottoscrizione del capo dell’Ufficio.

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