REDDITI ESTERI: SE NON LI DICHIARI, RISCHI!

Redditi esteri, come immobili, conti correnti, attività finanziarie di varia natura, non dichiarati totalmente o parzialmente nel quadro RW della dichiarazione dei redditi? Potresti rischiare un accertamento.

redditi esteri
Redditi esteri non dichiarati

COSA ACCADE QUANDO NON SI DICHIARANO I REDDITI CHE POSSIEDI ALL’ESTERO?

L’Agenzia delle Entrate ogni anno effettua controlli sulla correttezza dei redditi di fonte estera da te dichiarati. Questo tipo di controllo viene effettuato analizzando i dati pervenuti dalle agenzie fiscali degli stati esteri, proprio al fine di sanzionare coloro che, pur detenendo attività reddituali all’estero, non le hanno inserite nel cosiddetto “quadro RW” del modello Unico.

È necessario prestare la dovuta attenzione quando si detengono attività finanziarie in Paesi che possono essere definiti Paradisi Fiscali.

L’omessa indicazione di queste attività nella dichiarazione dei redditi comporta un raddoppio dei termini di accertamento, al fine di consentire all’Amministrazione Finanziaria di avere un prolungamento temporale per l’attività accertativa.

Tale prolungamento dell’azione accertatrice porta con sé una ulteriore presunzione importante, ovvero il fatto che tali attività non dichiarate si presumono costituite con redditi sottratti a tassazione italiana. Le ordinarie sanzioni legate all’omessa o infedele dichiarazione, inoltre, sono raddoppiate come indicato nell’ art. 12, co. 2 D.L. n. 78/09.

In situazioni come queste potresti essere pesantemente sanzionato per aver violato il cosiddetto obbligo di “monitoraggio fiscale”, oltre a permettere all’Amministrazione finanziaria di presumere che i redditi esteri non dichiarati siano stati frutto di evasione (art. 12 del D.L. n. 78/2009).

In questa tipologia di controlli in sostanza, l’Agenzia delle Entrate è legittimata ad avvalersi di un termine di accertamento prolungato, per l’esattezza, raddoppiato!

In sostanza, oggi potresti subire un controllo che potrà “retrocedere” fino a 8 annualità se l’Agenzia delle Entrate riscontra delle incongruenze tra i dati in suo possesso e quelli da te dichiarati

REDDITI ESTERI: LE DIVERSE MODALITÁ DI CONTROLLO MESSE IN ATTO DALL’AGENZIA DELLE ENTRATE

L’Agenzia delle entrate può effettuare i controlli adottando diversi metodi.

La prima modalità consiste nell’invio di una lettera di compliance, quando il contribuente ha presentato la dichiarazione dei redditi e ha omesso o dichiarato in modo errato redditi di fonte estera

Un altro modo per controllare può avvenire attraverso la richiesta di invito a comparire per instaurare un procedimento di accertamento con adesione quando il contribuente non ha presentato la dichiarazione dei redditi in Italia e ha omesso la dichiarazione dei redditi di fonte estera.

IN CHE MODO PUÓ CONCLUDERSI IL CONTRADDITTORIO CON IL CONTRIBUENTE?

Il contraddittorio con il contribuente può concludersi in tre modi:

  1. Archiviazione per non luogo a procedere, qualora sia emersa l’insussistenza delle condizioni per procedere all’accertamento. In questo caso il contribuente ha prodotto la documentazione utile a far cessare la pretesa del Fisco.
  2. Atto di adesione, qualora il contribuente intenda definire la propria posizione non volendo o non potendo contestare la posizione dell’Agenzia delle Entrate
  3. Atto di accertamento, ove il contribuente non si sia presentato in contraddittorio o non abbia definito l’accertamento con adesione a seguito del contraddittorio.

Se anche tu hai redditi all’estero o non hai una posizione fiscale chiara, rivolgiti subito agli esperti di 4tax che ti guideranno verso la risoluzione migliore del tuo problema con il Fisco.

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STABILE ORGANIZZAZIONE: COSA PUOI RISCHIARE?

Hai una stabile organizzazione, ovvero un’impresa con sede all’estero ma la tua attività si svolge principalmente nel nostro paese?

Negli ultimi anni sono molti gli imprenditori che hanno delocalizzato la loro attività all’estero per migliorare il carico fiscale sulle loro aziende. Se si ha una stabile organizzazione, quindi, bisogna stare attenti a dichiarare i redditi per non avere problemi con il Fisco.

CHE COSA SUCCEDE SE L’IMPRESA ESTERA SVOLGE IN ITALIA L’ATTIVITÀ E NON DICHIARA I REDDITI PRODOTTI?

Se l’impresa estera svolge in Italia l’attività e non dichiara i redditi prodotti va incontro a conseguenze da non sottovalutare.

Questo fenomeno si definisce stabile organizzazione ed è una situazione molto frequente che può comportare una contestazione con avviso di accertamento da parte di Agenzia delle Entrate.

QUANDO PUÒ CONFIGURARSI?

Quando l’impresa estera ha una sede stabile di affari o mediante persone che agiscono per conto dell’impresa. La sede fissa di affari della società estera può essere:

una sede di direzione; una succursale;

un ufficio; un’officina;

un laboratorio

una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali.

La presenza economica della sede di affari collegata all’impresa non residente deve essere significativa e continuativa.

Anche le attività svolte in Italia in ambito di economia digitale da società estere integrano, dunque, una stabile organizzazione e sono soggette al nostro regime fiscale.

STABILE ORGANIZZAZIONE PERSONALE

La presenza economica di una impresa non residente nel nostro Stato può realizzarsi anche attraverso una stabile organizzazione personale.

In questo caso l’impresa estera conclude affari per mezzo di una persona fisica che agisce in nome e per conto dell’impresa, anche in assenza di una struttura materiale.

Si è in presenza di tale caso quando una persona fisica agisce nel territorio di uno Stato per conto dell’impresa non residente, concludendo contratti o negoziando, potendosi quindi considerare un agente dipendente.

Si tratta, in particolare, di contratti:

stipulati dalla persona fisica in nome dell’impresa;

che riguardano il trasferimento della proprietà o la concessione del diritto di utilizzo di beni di tale impresa o che l’impresa ha il diritto di utilizzare; che sono relativi alla fornitura di servizi da parte dell’impresa.

Il tema della stabile organizzazione è complesso e abbraccia la disciplina fiscale dei diversi stati in cui risiedono l’impresa madre e la sua sede di affari all’estero.

La conoscenza degli elementi tipici di questo istituto è necessaria per comprendere se si sta operando attraverso una stabile organizzazione e quali sono gli adempimenti fiscali da osservare

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DEBITI FISCALI: COME ESTINGUERLI

Hai dei debiti fiscali e non sai come risolvere?

Spesso le somme richieste da parte dell’Agenzia dell’Entrate ai contribuenti sono così alte che non si riesce a far fronte ai pagamenti; di conseguenza i debiti si accumulano sempre di più nei casi più gravi possono portare al pignoramento dei propri beni.

debiti fiscali

Sappi, però, che esistono delle soluzioni legittime per affrontare e gestire queste situazioni che ti consentono di uscirne e di poter tornare a dormire sonni tranquilli.

QUALI METODI PUOI ADOTTARE PER RISOLVERE IL PROBLEMA DEI DEBITI FISCALI?

Una prima alternativa, che può essere richiesta sia dai privati che dagli imprenditori o dai lavoratori con partita iva, è la rateizzazione.

Questa soluzione permette di suddividere il debito nel corso degli anni a seconda di quanto dovuto. Sarà l’ufficio a determinare il numero di rate. È un’opzione anche d’emergenza per bloccare eventuali azioni esecutive.

Stai attento perché tra la richiesta di rateizzazione e l’accoglimento della stessa passa talvolta del tempo prezioso.

Per i privati e per tutti i soggetti non fallibili, abbiamo la procedura di sovraindebitamento. È una procedura che deve essere applicata tutte quelle volte in cui vi è uno squilibrio tra il patrimonio liquidabile del soggetto e l’esposizione debitoria. È una procedura che consente, quindi, di abbattere il debito in base alla reale capacità del soggetto di far fronte al residuo mediante al pagamento di rate.

Per le imprese abbiamo la composizione negoziata della crisi di impresa.

La composizione negoziata della crisi di impresa è un percorso riservato e stragiudiziale con il quale il legislatore intende agevolare il risanamento di quelle imprese che, pur trovandosi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, hanno le potenzialità necessarie per restare sul mercato, anche mediante il trasferimento dell’azienda o di rami di essa.

CHI PUÓ ACCEDERE ALLA PROCEDURA?

Possono accedere alla procedura di composizione negoziata tutte le imprese iscritte al Registro delle Imprese, comprese le ditte individuali e le società agricole. Il percorso della composizione è esclusivamente di tipo volontario, quindi attivabile solo dalle imprese che decidono di farvi ricorso.

Se hai dei debiti con il Fisco e non sei esperto in materia, affidati ad un team di professionisti in grado di consigliarti il percorso migliore per la tua situazione.

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FLAT TAX: PUÓ DIVENTARE UNA TASSA PROGRESSIVA?

In questo periodo si parla di flat tax in Italia. E in molti si chiedono come sarà e se violi davvero la Costituzione.

COSA SIGNIFICA FLAT TAX?

La flat tax è un’imposta con un’aliquota unica per tutti, proporzionale rispetto al reddito complessivo, e nella misura del 15%. Per intenderci è un’imposta che si applica a prescindere dal reddito prodotto.

Se hai un reddito di 10.000, con un’aliquota ad esempio del 10 per cento, pagherai un’imposta pari a 1000. Se hai un reddito da 100.000 euro pagherai 10.000 euro e così via.

Quindi la tassa piatta – la flat tax appunto – non è progressiva e proporzionale rispetto al reddito prodotto. Caratteristiche che invece l’IRPEF attuale ha, nel pieno rispetto della nostra costituzione e dell’art. 53.

L’IRPEF, in qualità di imposta progressiva e proporzionale, cresce o diminuisce in modo più che proporzionale rispetto all’aumento o alla diminuzione del reddito.

Infatti

fino a euro 15.000,00         23%

da 15.001,00 fino a 28.000,00 euro          25%

da 28.001 fino a 50.000 euro         35%

oltre 50.001 euro      43%

In questo modo il sistema oggi garantisce che i redditi più alti contribuiscano di più al finanziamento dei servizi pubblici (scuole, sanità etc.), non solo perché pagano di più in termini assoluti, ma proprio perché sono tassati con aliquote più alte.

Tutto questi è previsto nell’art. 53 della Costituzione.

Il tema è che la tassa piatta sembrerebbe contrastare con questo principio fondamentale.

E allora come si può risolvere? Ma può diventare progressiva e non essere anticostituzionale?

Probabilmente un modo c’è.

Se si affianca l’aliquota unica per tutti ad un sistema di deduzioni e detrazioni fiscali articolato in base al reddito e alle caratteristiche del nucleo famigliare, la flat tax può diventare compatibile con la progressività.

Sotto una certa soglia, i redditi sarebbero esenti dal pagamento dell’imposta, mentre oltre un certo reddito non ci sarebbe nessuna detrazione, all’interno della forbice, infine, le detrazioni e le deduzioni sarebbero modulate in base a determinati parametri predeterminati che garantirebbero la progressività dell’imposta.

Proprio grazie a questi correttivi si parla di flat tax progressiva che, nonostante l’aliquota fissa, non oltraggerebbe comunque l’articolo 53 della Costituzione. Per rimanere sempre aggiornato in materia tributaria, visita il nostro blog

Detraibilità IVA auto: 4 esempi per non sbagliare!

La detrazione dell’IVA sulle auto aziendali: l’uso promiscuo e l’utilizzo esclusivo nell’azienda!

La detraibilità IVA sull’auto è soggetta al rispetto di una disciplina peculiare all’interno del nostro ordinamento, per il fatto che – diversamente dalla normativa comunitaria contenuta nella direttiva n. 112 del 2006 – nel nostro ordinamento vi sono dei limiti alla detrazione IVA nelle ipotesi in cui l’acquisto o il noleggio dell’auto non venga effettuato in modo esclusivo per l’esercizio dell’impresa.

Le norme

La normativa che stabilisce la detraibilità dell’IVA relativa all’acquisto dell’auto  e delle relative spese come carburante, manutenzione e ricambi – si ricava dall’art. 19, comma 1, e dall’art. 19-bis1, lettera c), del D.P.R. 633/72.

L’articolo 19, comma 1, del D.P.R. 633/72, attribuisce in linea generale al soggetto passivo IVA la possibilità di detrarre al 100% l’IVA relativa all’acquisto di beni impiegati nell’ambito dell’attività di impresa. Tra tali beni rientra anche l’auto.

L’articolo 19-bis1, lettera c), del D.P.R. 633/72, prevede la detrazione IVA auto al 40% in relazione a “tutti i veicoli a motore, diversi dai trattori agricoli o forestali, normalmente adibiti al trasporto stradale di persone o beni la cui massa massima autorizzata non supera 3.500 Kg e il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, non è superiore a otto”. È infatti da osservare che – attraverso la decisione di esecuzione (UE) 2019/2138 del Consiglio europeo del 5 dicembre 2019 – lo Stato italiano è stato autorizzato a mantenere, fino al 31 dicembre 2022, il limite del 40 per cento per la detraibilità dell’IVA sull’acquisto delle auto non utilizzate in modo esclusivo per finalità professionali.

Quindi, ad oggi, per quanto riguarda la detraibilità IVA per l’acquisto dell’auto possono esservi due casi.

  • Detraibilità IVA integrale al 100%: si ha quando i veicoli stradali a motore, per trasporto di persone o cose, sono adoperati in modo esclusivo per l’esercizio di un’attività d’impresa, professione o arte, cioè siano un mezzo o uno strumento per l’attività propria dell’impresa.
  • Detraibilità IVA limitata al 40%: quando i veicoli stradali a motore per trasporto di persone o cose non sono adoperati esclusivamente per un’attività d’impresa, arte o professionema sono utilizzati in modo promiscuo.

È importante notare che una volta determinata la percentuale di detraibilità dell’IVA per l’acquisto dell’auto, la medesima percentuale si applica:

  • alle prestazioni di servizi collegate ai veicoli;
  • alle prestazioni di custodia del veicolo;
  • alla manutenzione, alle modificazioni e alla riparazione del veicolo;
  • al transito stradale (pedaggio autostradale);
  • all’acquisto di carburanti e lubrificanti;
  • al noleggio e al leasing.

Detrazione IVA auto professionisti

Un professionista, solitamente, può trovarsi nella condizione di dover:

  • acquistare un’autovettura o un veicolo nuovo;
  • noleggiare una vettura, anche a lungo termine;
  • portare a termine un contratto di leasing, con la possibilità di esercitare l’opzione per l’acquisto del mezzo alla fine della locazione finanziaria.

La detrazione dell’IVA per l’acquisto dell’auto da parte di un professionista dipende dal tipo di utilizzo che questi ne fa.

Se il libero professionista utilizza il veicolo solo ed esclusivamente per l’attività professionale, l’IVA può essere detratta al 100%. È il caso, ad esempio, degli agenti di commercio.

Deve però tuttavia osservarsi che, in caso di contestazione circa la detraibilità IVA auto applicata in via integrale, il professionista deve provare il possesso di un altro veicolo per scopi extra professionali e/o personali.

Se, invece, il professionista non utilizza l’auto solo ed esclusivamente per l’attività professionale, l’IVA pagata per l’acquisto della stessa è detraibile in misura pari al 40%.

È importante notare che la percentuale di detraibilità IVA sulle autovetture è forfettaria: questo vuol dire che non è possibile constatare una quota maggiore relativa al suo effettivo utilizzo al fine di avere una maggiore detraibilità dell’IVA.

È importante notare che le medesime regole circa la detraibilità IVA auto si applicano sia nel caso di un contratto di noleggio auto a lungo termine sia nelle ipotesi di leasing: detraibilità IVA al 100% nelle ipotesi di uso esclusivo nell’attività professionale e detraibilità IVA al 40% nelle ipotesi di uso promiscuo.

Adesso proviamo a fare degli esempi.

Esempio n. 1: detraibilità IVA auto a uso promiscuo

Acquisto dell’auto, impiegata ad uso promiscuo, del valore di 50.000 € + IVA al 22%.

  • Tale professionista in totale pagherà 61.000 € (50.000 + IVA di 11.000) per il costo di acquisizione.
  • L’IVA è pari a 11.000 €, ma da quest’ultima somma si può detrarre il 40 per cento, ovvero 4.400 €.
  • La restante somma, ossia 6.600 €, trattandosi di IVA indetraibile costituirà un costo fiscalmente deducibile.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto sarà 50.000 € + 6.600 € = 56.600 €.

La parte di IVA che non è stata possibile detrarre costituirà quindi un costo deducibile dal reddito di impresa.

Esempio n. 2: detraibilità IVA per riscatto auto nell’ambito di un contratto di leasing

Leasing auto: riscatto finale di un’auto per uso esclusivo nell’attività professionale, del valore di 50.000 € + IVA al 22%.

  • Il professionista in totale pagherà 61.000 € (50.000 + IVA di 11.000) per il costo di riscatto dell’auto.
  • L’IVA è pari a 11.000 € ed è possibile detrarre integralmente tale importo.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto sarà 50.000 €.

Detraibilità IVA auto aziendali

Anche un’impresa o un’azienda può trovarsi nella condizione di dover:

  • acquistare un’auto;
  • noleggiare una vettura, anche a lungo termine;
  • portare a termine un contratto di leasing, con la possibilità di esercitare l’opzione per l’acquisto del mezzo alla fine della locazione finanziaria.

Anche per quanto riguarda le aziende, le percentuali di detraibilità dell’IVA per l’acquisto delle auto aziendali variano, quindi, dal 40% al 100% e sono determinate, anche in questo caso, dal modo in cui si utilizza il veicolo (uso promiscuo o strumentale).

Entrando nello specifico dei vari casi:

  • le aziende che adoperano il veicolo come bene strumentale possono detrarre l’IVA al 100%, sia che la vettura venga acquistata oppure nel caso essa venga noleggiata o utilizzata in leasing;
  • le imprese che utilizzano il veicolo per attività non strettamente legate all’attività di impresa possono beneficiare di una detrazione IVA del 40% a prescindere dal titolo di possesso dell’autovettura;
  • aziende che concedono un auto ad uso promiscuo ad un dipendente per la maggior parte del periodo di imposta possono beneficiare della detrazione IVA al 40%. La detrazione dell’IVA spetta al 100%, se il corrispettivo addebitato al dipendente risulta di un ammontare almeno pari al fringe benefit (beneficio accessorio).

Adesso proviamo a fare degli esempi.

Esempio n. 1: detraibilità IVA noleggio auto a uso promiscuo

Noleggio dell’auto, impiegata ad uso promiscuo, con rate del valore di 500 € + IVA al 22%.

  • L’azienda in totale pagherà al mese 500 € + 110 € di IVA.
  • L’IVA al mese è  pari a 110 €, ma da quest’ultima somma si può detrarre il 40 per cento, ovvero 44 €.
  • La restante somma, ossia 66 €, trattandosi di IVA indetraibile costituirà un costo fiscalmente deducibile.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto al mese sarà 500 € + 66 € = 566 € (€ 6.792 all’anno).

La parte di IVA che non è stata possibile detrarre costituirà quindi un costo deducibile dal reddito di impresa.

Esempio n. 2: detraibilità IVA noleggio auto a uso promiscuo

Noleggio dell’auto, impiegata ad uso esclusivo nell’esercizio dell’impresa, con rate del valore di 500 € + IVA al 22%.

  • L’azienda in totale pagherà al mese 500 € + 110 € di IVA.
  • L’IVA al mese è  pari a 110 € ed è possibile detrarre integralmente tale importo.
  • Quindi il costo totale definitivo dell’auto al mese sarà 500 € (€ 6.000 all’anno).

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

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Soggetto passivo IVA

Soggetto passivo IVA: quando alla holding è concesso l’esercizio della detrazione IVA!

Il soggetto passivo IVA può essere definito come quel soggetto che svolge un’attività economica ai fini IVA, effettuando cessioni di beni e prestazioni di servizi per cui deve essere applicata l’IVA.

1. Soggetti passivi IVA chi sono?

La disciplina che regolamenta la soggettività passiva IVA è contenuta a livello comunitario nell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112/CE.

Tale norma definisce soggetti passivi IVA chiunque esercita in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività economica. Si tratta in particolare delle attività:

  • di produttore;
  • di commerciante;
  • di prestatore di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle delle professioni liberali o assimilate.

Si considera anche attività economica lo sfruttamento di un bene per ricavarne introiti aventi un certo carattere di stabilità (art. 9, paragrafo 2, della direttiva).

L’ordinamento italiano considera soggetto passivo IVA:

  • i soggetti che svolgono attività imprenditoriali (cfr. l’articolo 4 del dpr 633 72);
  • le attività professionali e artistiche (cfr. l’articolo 5 del dpr 633 72).

In base all’articolo 4, primo comma, del dpr 633 72, la soggettività passiva prevista per gli esercenti imprese è verificata quando si è in presenza

  • delle attività commerciali di cui all’articolo 2195 del codice civile oppure
  • di altre attività organizzate in forma d’impresa.

In base all’articolo 4, quarto comma, del dpr 633 72, tuttavia, gli enti non commerciali sono soggetti passivi IVA solo per le attività commerciali che pongono in essere, a nulla rilevando l’organizzazione in forma d’impresa.

Per quanto riguarda l’esercizio di arti e professioni, la normativa considera l’esercizio di una professione abituale di qualsiasi forma di attività autonoma da parte di persone fisiche o di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica. La norma esclude da tale definizione i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e le attività reseda associati nell’ambito dei contratti di associazione in partecipazione, rese da soggetti che non esercitano per professione abituale altre attività di lavoro autonomo.

2. Una holding è un soggetto passivo IVA?

È importante sottolineare che – sulla base della lettera b del comma 5 dell’articolo 4 del dpr 633 72 – l’acquisto e la detenzione di partecipazioni da parte di una holding non costituisce esercizio di attività economica ai fini IVA.

L’articolo 4, quinto comma, del dpr 633 72 esclude che esercitino attività commerciale – non avendo quindi i requisiti per essere considerati soggetti passivi IVA – quei soggetti la cui unica attività è quella di detenere attività finanziarie non strumentali, né accessorie, ad altre attività esercitate. Occorre evidenziare al riguardo che per mero possesso di attività finanziarie si considera la detenzione di partecipazioni in altre società senza che la holding appunto interferisca nella gestione delle società partecipate. Si verifica  interferenza ove la holding compia “operazioni soggette a IVA, quali la prestazione di servizi amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici” nei confronti delle partecipate (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 17 ottobre 2018, C-249/17).

La Corte di Giustizia ha ritenuto ad esempio la locazione di un immobile effettuato da una holding ad una società controllata come una forma di interferenza nella gestione di quest’ultima. Inoltre, ha ritenuto la stessa un’attività economica che fa sorgere il diritto alla detrazione dell’IVA sulle spese sostenute per l’acquisto delle partecipazioni (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 5 luglio 2018, C‑320/17).

Occorre infine evidenziare che se le partecipazioni sono detenute da una fondazione, quest’ultima può essere considerata un soggetto IVA se, oltre alla mera detenzione delle partecipazioni stesse, effettua un’interferenza nella gestione delle società partecipare svolgendo nei confronti di queste ultime servizi soggetti a IVA (cfr. la risposta a istanza di interpello dell’Agenzia delle Entrate 12 giugno 2019, n. 187).

3. Soggetto passivo IVA e detrazione IVA: come funziona?

Quando un determinato contribuente può essere considerato, per quanto sopra detto, un soggetto passivo IVA, derivano certe conseguenze agli effetti dell’IVA.

soggetti IVA possono infatti portare in detrazione l’IVA per gli acquisti di beni e le prestazioni di servizi effettuate (la cd. IVA  credito).

Per quanto concerne l’esercizio alla detrazione IVA, la normativa comunitaria – contenuta nell’articolo 168 della direttiva 2006/112/CE – stabilisce che il soggetto passivo IVA può esercitare il diritto alla detrazione IVA per cui è debitore in relazione ai beni e ai servizi acquistati, ove questi siano stati impiegati nell’attività esercitata dal soggetto passivo IVA. Secondo la Corte di Giustizia (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 29 ottobre 2009, C-29/08), affinché il soggetto passivo IVA possa portare in detrazione l’IVA relativa ai beni e servizi acquistati è necessario che tali costi rappresentino una parte del prezzo del bene o del servizio reso da tale soggetto.

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, ciò che occorre appurare è l’esistenza di una forma di nesso tra l’operazione di acquisto effettuata dai soggetti passivi IVA e la cessione di beni e/o la prestazione di servizi effettuata da tale soggetto a valle, fondamentale per consentire la detrazione dell’IVA sugli acquisti effettuati. Sempre secondo la giurisprudenza comunitaria, per stabilire se è possibile per il contribuente procedere con la detrazione dell’IVA occorre considerare tutte le circostanze in cui si sono svolte le operazioni dal punto di vista oggettivo (cfr. la sentenza della Corte di Giustizia 21 febbraio 2013, C‑104/12). In sostanza, non potrà esercitarsi il diritto alla detrazione IVA addebitata con la rivalsa IVA, qualora sulla base delle circostanze che caratterizzano il caso concreto emergesse una mancanza di correlazione tra l’IVA sugli acquisti e l’IVA applicata a valle.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

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Stabile organizzazione IVA: territorialità e fattura elettronica

Stabile organizzazione IVA: territorialità IVA, adempimenti fiscali e fatturazione elettronica.

La stabile organizzazione IVA è una delle tre modalità con cui un soggetto passivo IVA non residente può identificarsi in Italia ai fini di tale imposta.

Il soggetto passivo IVA estero può identificarsi in Italia anche mediante l’identificazione diretta ovvero tramite il cd rappresentante fiscale, argomenti che affronteremo in questa sede solo in modo marginale.

È importante notare che la presenza di una stabile organizzazione comporta l’assolvimento degli obblighi formali e sostanziali (liquidazione dell’IVA, versamento dell’IVA, fatturazione elettronica, etc.) prescritti dalla normativa contenuta nel dpr 633 72.

1. Definizione di stabile organizzazione IVA

La definizione di stabile organizzazione IVA è diversa dalla definizione di stabile organizzazione prevista ai fini delle imposte dirette. Ai fini delle imposte sul reddito, infatti, affinché si configuri una stabile di un soggetto non residente, lo stesso deve operare nel nostro Paese in maniera continuativa e significativa con:

  • una sede fissa di affari,
  • oppure attraverso persone che agiscono per conto dell’impresa (art. 162 TUIR).

La società estera, quindi, può esercitare la sua stabile attività economica in Italia alternativamente o con una sede fissa per mezzo di persone (ad esempio un agente dipendente).

Ai fini IVA, invece, un’impresa estera esercita la sua attività economica in Italia con una stabile organizzazione se ha un grado sufficiente di permanenza sul territorio, con la contemporanea presenza di una dotazione tecnica e una dotazione umana che le permettono di operare.

Questa definizione contenuta nell’art. 11 del regolamento UE n. 282/2011 ci permette di capire che ai fini IVA l’attività dell’impresa estera deve essere presente stabilmente nel territorio italiano con la compresenza di risorse umane e tecniche.

Per potersi configurare una stabile organizzazione IVA è quindi in definitiva necessario:

  • un sufficiente grado di stabilità;
  • una struttura in cui operano risorse umane e in cui sono presenti dotazioni tecniche;
  • un’autonomia operativa.

Ciò è da escludere quando le operazioni realizzate servono per preparare l’attività di impresa della casa madre estera o sono di ausilio a quest’ultima.

Un esempio è quello di un centro di attività in cui ci si occupa di assumere personale per l’impresa estera o di acquistare strumenti tecnici per lo svolgimento delle attività dell’impresa.

2. Stabile organizzazione IVA e territorialità IVA: esempi

Perché è così importante sapere se un soggetto estero ha una stabile organizzazione IVA in Italia?

È così importante perché la territorialità dell’operazione di acquisto o di vendita effettuata da una società italiana con il soggetto passivo IVA estero muta a seconda che la stabile organizzazione IVA di tale soggetto partecipi o meno all’operazione.

Se, quindi, con la tua società hai acquistato un bene o un servizio da un soggetto passivo IVA comunitario e vuoi scoprire se hai ricevuto la fattura in modo corretto guarda questi esempi.

La regola da seguire, sulla base dell’articolo 192-bis della direttiva IVA, degli articoli 53 e 54 del regolamento n. 282 del 2011 e dell’articolo 7 ter del dpr 633 72, è descritta negli esempi che seguono.

Esempio n. 1

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione IVA in Italia che non partecipa all’operazione.

Il servizio è territorialmente rilevante in Italia ai sensi dell’articolo 7 ter del dpr 633 72.

In questo caso, la società italiana A riceverà dalla società tedesca  B una fattura senza IVA che dovrà integrare mediante il meccanismo del reverse charge.

Esempio n. 2

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione IVA in Italia che fornisce esclusivamente servizi di supporto amministrativo nell’ambito dell’operazione.

In questo caso, l’intervento della stabile organizzazione non è essenziale alla casa madre tedesca per rendere il servizio e non viene quindi considerato ai fini della territorialità IVA (art. 53 del regolamento n. 282 del 2011).

Il servizio è territorialmente rilevante in Italia ai sensi dell’articolo 7-ter del dpr 633 72.

In questo caso, la società italiana A riceverà dalla società tedesca una fattura senza applicazione dell’imposta  che dovrà integrare mediante il meccanismo del reverse charge.

Esempio n. 3

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione in Italia che partecipa all’operazione fornendo i mezzi tecnici o umani e dando un contributo essenziale per la realizzazione del servizio reso dalla casa madre tedesca.

In tal caso, al servizio in oggetto si applica l’IVA italiana.

La società italiana A riceverà dalla stabile organizzazione in Italia del soggetto tedesco una fattura con IVA italiana e con il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato italiano.

  • Esempio n. 4

La società italiana A acquista un servizio dalla società tedesca B che ha una stabile organizzazione IVA in Italia che partecipa all’operazione fornendo esclusivamente servizi di supporto amministrativo.

In questo caso, la società italiana A dovrebbe ricevere dalla società tedesca B una fattura senza IVA – che dovrebbe integrare mediante il meccanismo del reverse charge – ma riceve la fattura dalla stabile organizzazione in Italia con IVA italiana.

In questo caso, il servizio si presume reso dalla stabile organizzazione italiana del soggetto estero (art. 53 del regolamento n. 282 del 2011).

  • Esempio n. 5

La società italiana A acquista un servizio dalla società X, stabile organizzazione in Italia della società tedesca Y.

In questo caso, la società X – stabile organizzazione in Italia della società tedesca Y – deve emettere una fattura con IVA italiana e con partita IVA italiana nei confronti della società italiana A.

3. Stabile organizzazione IVA: cessioni di beni

Le medesime casistiche, con le relative differenze, possono in linea di massima ritenersi applicabili anche nei casi di cessioni di beni.  

Ove la stabile organizzazione del soggetto non residente effettui cessioni di beni nei confronti di un soggetto IVA stabilito in Italia, la stessa dovrà emettere fattura elettronica con IVA, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, dpr 633 72.

4. Stabile organizzazione in Italia adempimenti

La stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente è soggetta agli stessi adempimenti cui sono tenuti gli altri soggetti passivi IVA. Essa, in particolare, deve:

  • tenere le scritture contabili obbligatorie;
  • effettuare la liquidazione IVA;
  • emettere fattura elettronica;
  • presentare Intrastat ed esterometro (ove previsto);
  • presentare la dichiarazione IVA e le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette (IRES e IRAP).

5. Identificazione diretta e rappresentante fiscale

Se l’impresa non residente non ha una stabile organizzazione IVA in Italia deve identificarsi ai fini I.V.A. nel nostro Stato attraverso due modalità:

  • attraverso una identificazione diretta;
  • oppure tramite un rappresentante fiscale residente nel territorio dello Stato.

L’impresa non residente che vuole operare attraverso identificazione diretta deve fare apposita dichiarazione all’Ufficio competente prima di effettuare le operazioni.

La dichiarazione deve contenere gli elementi riportati all’art. 35-bis del dpr 633 72. L’ufficio attribuisce un numero di partita IVA. al richiedente che deve essere indicato nella dichiarazione IVA e, quando richiesto, negli altri atti.

Se l’impresa estera si avvale, invece, di un rappresentante fiscale questi risponde in solido con l’impresa rappresentata degli obblighi che derivano dall’applicazione delle norme IVA. Inoltre, la sua nomina deve essere comunicata all’altro contraente prima dello svolgimento dell’operazione.

Inquadrare la tua attività economica all’interno del nostro Stato è fondamentale per applicare correttamente la normativa fiscale in materia di IVA e per effettuare i relativi adempimenti.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce una consulenza fiscale di un avvocato tributarista.

Alla fine, se hai bisogno di maggiori chiarimenti o di una consulenza fiscale compila il form di contatto.

Fatture soggettivamente inesistenti: cosa sono?

Quando si menzionano le fatture soggettivamente inesistenti ci si riferisce a quelle fatture che documentano operazioni fraudolente, il cui scopo è porre in essere una frode fiscale al fine di evadere l’IVA.

In particolare, per fatture soggettivamente false si intendono quelle operazioni i cui partecipanti non corrispondono ai soggetti intestatari della fattura: si tratta di operazioni effettivamente realizzate, ma non in capo ai soggetti che risultano dal punto di vista documentale.

Nell’ambito di tali operazioni la posizione più delicata è quella dell’acquirente, il quale spesso deve dimostrare che l’acquisto da lui effettuato non si inseriva in una evasione fiscale.

1. Fatture soggettivamente inesistenti: la normativa

La normativa relativa alle fatture soggettivamente inesistenti è contenuta:

  • nell’articolo 21, comma 7, del D.P.R. n. 633 del 1972;
  • nell’articolo 1, lettera a), del D. Lgs n. 74 del 2000.

2. Fatture soggettivamente inesistenti: esempio

La frode realizzata mediante utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti può essere così descritta.

Un soggetto nazionale (il cosiddetto missing trader) effettua da un soggetto estero l’acquisto di un bene o di un servizio. In tal caso, il soggetto estero emetterà nei confronti del missing trader una fattura senza applicazione dell’IVA, il quale a sua volta emetterà una autofattura ai fini della registrazione dell’acquisto nel registro delle fatture.

Successivamente, il missing trader procede a cedere il bene o il servizio ad un soggetto italiano – spesso ignaro – al quale addebita l’IVA in via di rivalsa.

L’acquirente detrae ai sensi dell’articolo 19, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, l’IVA addebitata dal missing trader. È importante notare che quest’ultimo, avendo acquistato il bene o il servizio dal soggetto estero senza l’IVA, ha la possibilità di operare sul mercato con un prezzo particolarmente vantaggioso (di norma del 10/12 per cento inferiore alla concorrenza). Il missing trader, dopo aver incassato l’IVA dal cessionario, non procede al versamento della stessa.

È da evidenziare che nell’ambito di operazioni soggettivamente inesistenti, lo schema fraudolento può essere realizzato anche con soggetti nazionali e con catene di cessioni di beni o prestazioni di servizi molto più articolare di quelle descritte.

Nell’ambito di una frode fiscale operata mediante l’emissione di fatture soggettivamente inesistenti, la posizione più delicata è senza dubbio quella del cessionario – spesso ignaro – a cui viene disconosciuta la detrazione dell’IVA.

3. Fatture soggettivamente inesistenti: l’onere della prova

La delicata questione dell’onere della prova in caso di frode IVA di natura soggettiva è stata affrontata dalla Corte di Giustizia (cfr. la sentenza C-277/14, punto 50).

La Corte di Giustizia ha affermato che “spetta all’amministrazione tributaria, che abbia constatato evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, dimostrare, alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’IVA, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

Solo il tali ipotesi, ad avviso della Corte di Giustizia, il contribuente “deve essere considerato (…) partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle” (cfr. la sentenza C-277/14, punto 50).

In tale sentenza, la Corte di Giustizia ha chiarito che è onere dell’Amministrazione Finanziaria dimostrare che il cessionario acquirente sapeva o avrebbe dovuto sapere che il suo acquisto si inseriva nell’ambito di un’evasione fiscale.

Tale interpretazione è stata di recente condivisa dalla stessa Corte di Cassazione.

La suprema Corte nella sentenza 11 novembre 2020, n. 25426, ha affermato che “è principio condiviso quello secondo cui in tema di IVA, il principio di neutralità dell’imposizione comporta che l’Amministrazione finanziaria, ove contesti che siano state poste a fondamento della detrazione della relativa imposta operazioni soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche in via presuntiva, la ricorrenza di elementi oggettivi dai quali emerga che il contribuente, nel momento in cui acquistò il bene o il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva evaso l’imposta o partecipato ad una frode. Spetta, pertanto, al destinatario della fattura emessa per un’operazione inesistente, ai fini della detrazione dell’imposta, la prova della propria buona fede nel caso in cui dimostri di avere adempiuto a tutti gli obblighi formali e di diligenza richiesti a un operatore del settore e di essere stato nell’oggettiva impossibilità di conoscere l’eventuale frode”.

Dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione emerge che in caso di operazioni soggettivamente inesistenti l’onere della prova, anche mediante l’utilizzo di presunzioni, incombe sull’Amministrazione Finanziaria.

4. Fatture soggettivamente inesistenti: la buona fede

Ove l’Amministrazione Finanziaria dimostri che il cessionario sapeva – o avrebbe potuto sapere con l’ordinaria diligenza – che l’acquisto effettuato si inseriva nell’ambito di una frode fiscale, spetta a tale cessionario dimostrare la sua estraneità fornendo apposita prova contraria.

In sostanza, l’ottemperanza al dovere probatorio da parte del Fisco, nei termini appena delineati, determina un’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente, il quale dovrà dimostrare la propria buona fede.

Su quest’ultimo aspetto, la giurisprudenza ha affermato che la buona fede dell’acquirente non può essere dimostrata mediante la mera esibizione di una contabilità regolare o mediante la dimostrazione dell’assenza di un vantaggio economico. In tal caso si rende necessario dare evidenza di aver fatto tutto il possibile per appurare la correttezza fiscale dell’operazione.

5. Fatture soggettivamente inesistenti: la deducibilità del costo

Le conseguenze che si producono sotto il profilo fiscale nell’ambito delle fatture soggettivamente false sotto il profilo soggettivo riguardano soltanto la detrazione dell’IVA in capo al cessionario e non la deducibilità dei costi sostenuti.

Ai fini delle imposte sui redditi si perviene, infatti, a delle differenti conclusioni.

Infatti, dopo l’introduzione operata dal decreto-legge n. 16 del 2012 del comma 4-bis all’articolo 14 della legge n. 537 del 1993 – che ha previsto l’indeducibilità dei costi “direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo” – i costi documentati mediante fatture soggettivamente inesistenti vengono in via generale considerati deducibili, in quanto relativi a un’operazione che solo in via marginale può ritenersi una fattispecie delittuosa.

A tal fine, di particolare importanza appaiono le considerazioni espresse dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 13844 del 6 luglio 2020.

In tale ordinanza, la Corte ha evidenziato che “sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, oppure di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo”.

6. Fatture soggettivamente inesistenti: le sanzioni

Nelle ipotesi in cui venga contestato al cessionario l’utilizzo di fatture soggettivamente false, a tale soggetto, oltre al disconoscimento della detrazione dell’IVA operata, si renderanno applicabili le seguenti sanzioni.

  • Sanzione per infedele dichiarazione: dal 135 al 270 per cento (articolo 5, commi 4 e 4-bis, del decreto n. 471 del 1997).
  • Sanzione per illegittima detrazione dell’IVA: dal 90 al 180 per cento (articolo 6, comma 6, del decreto n. 471 del 1997).

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

Se hai necessità di maggiori informazioni compila il form.

Omesso versamento IVA: crisi di liquidità esclude il reato!

L’omesso versamento IVA – qualora vengano superate determinate soglie – costituisce un reato punibile ai sensi dell’art. 10-ter del D. Lgs. n. 74/2000.

Un ruolo di primaria importanza al fine di escludere la rilevanza della condotta ha assunto l’esimente della crisi di liquidità, analizzata da ultimo nella sentenza n 35696 della Corte di Cassazione del 14 dicembre 2020.

1. Reato omesso versamento IVA: la disciplina

Il reato di mancato versamento IVA è disciplinato dall’articolo 10-ter del D. Lgs. n. 74/2000.

Sulla base della predetta disposizione normativa, la pena per chi commette il delitto di omesso versamento IVA oltre la soglia di 250.000,00 euro oscilla dai sei mesi a 2 anni di reclusione.

2. Reato omesso versamento IVA: soglia penale

L’omesso pagamento IVA è un reato di tipo omissivo e si perfeziona con l’omesso versamento dell’imposta dovuta sulla base dalla dichiarazione IVA, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo (27 dicembre di ogni anno).

Questo è un reato di tipo istantaneo e si consuma allo scadere del termine per il versamento dell’acconto IVA relativo al periodo d’imposta successivo.

Questo tipo di reato, in taluni casi, soesso si associa al delitti di tipo dichiarativo, come ad esempio:

  • il reato di  dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex articolo 2 Decreto Legislativo 74/2000;
  • di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex articolo 4 Decreto Legislativo 74/2000 e Dichiarazione infedele ex articolo 4 Decreto Legislativo 74/2000.

Affinché l’omesso versamento IVA rilevi penalmente, è necessario il superamento della soglia di 250.000 euro.

Ove il contribuente non superi tale importo non si configura un illecito penale, bensì un illecito di natura tributaria le cui sanzioni amministrative sono disciplinate dall’art. 13 del D. Lgs. n. 471 del 1997, norma che disciplina la sanzione per tardivo versamento IVA.

Ai fini dell’integrazione del reato di omesso versamento IVA, l’entità della somma da versare da considerare è quella che si desume in base alla dichiarazione annuale IVA del contribuente e non quella desumibile dalle annotazioni contabili (cfr. la sentenza della Corte di Cassazione 14595 del 2018).

In sostanza, affinché l’omissione rilevi ai fini del mancato pagamento per l’ imposta sul valore aggiunto è necessario che:

  • il contribuente abbia presentato una dichiarazione IVA dalla quale risulti un debito di imposta pari o di un ammontare superiore a 250.000,00 euro;
  • l’omesso versamento dell’IVA si protragga oltre il termine di versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo.

3. Prescrizione omesso versamento IVA: la decorrenza dei termini

La prescrizione del reato nei casi di omesso versamento IVA è pari a 6 anni ovvero a 7 anni e mezzo nelle ipotesi in cui si verifichino eventi di interruzione.

Ai sensi dell’art. 158 del c.p. la decorrenza dei termini prescrizionali inizia dal giorno della consumazione del reato. Nel caso di specie, la decorrenza dei termini di prescrizione ha inizio dal momento in cui si sarebbe dovuto effettuare il versamento dell’IVA.

4. Omesso versamento IVA: l’esimente della crisi di liquidità ai fini dell’esclusione del reato

La scriminante della crisi di liquidità, nelle ipotesi di reato di omesso versamento IVA ai sensi dell’art. 10-ter del D. Lgs. n. 74 del 2000, è stata di recente oggetto di importanti sentenze della Corte di Cassazione. Tra queste vi è la sentenza 14 dicembre 2020, n. 35696.

In particolare, la Corte di Cassazione, nell’escludere l’inquadramento della crisi di liquidità nell’ambito dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., ha affermato che con tale istituto ci si riferisce alla “lesione dei soli beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano, come la vita, l’integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l’onore” (cfr. la sentenza della Sezione III penale della Corte di Cassazione 21 gennaio 2015, n. 7429) e non, invece, “a quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana”, la cui perdita non è, dunque, in grado di integrare un danno grave alla persona, richiesto dall’art. 54 c.p.

In quest’ottica è stata, ad esempio, esclusa la rilevanza della presentazione della domanda da parte dell’impresa di concordato preventivo che non vieta il pagamento dei debiti tributari (cfr. la sentenza della Sezione III penale della Corte di Cassazione 12 febbraio 2019, n. 25315).

Ad avviso della Corte di Cassazione, l’esimente della crisi di liquidità non può essere invocata se vi è una semplice difficoltà (cfr. la sentenza della Sezione III penale della Corte di Cassazione 13 marzo 2020, n. 9960), ma è necessario che il mancato pagamento IVA, nonostante l’esperimento di tutte le iniziative, dipenda da circostanze:

  • non riconducibili alla volontà dell’imprenditore (cfr. la sentenza della Sezione III penale della Corte di Cassazione 17 settembre 2019, n. 38482);
  • a cui non è stato possibile rimediare (cfr. la sentenza della Sezione III penale della Corte di Cassazione 20 febbraio 2019, n. 7644);
  • indipendenti dalla volontà dell’imprenditore (cfr. la sentenza della Sezione III penale della Corte di Cassazione 13 marzo 2018, n. 11035).

Con la sentenza 14 dicembre 2020, n. 35696, la Corte di Cassazione ha aperto alla possibilità di escludere profili di responsabilità penale, ove l’omesso versamento IVA dipenda dalla crisi finanziaria del contribuente tale da non consentire il versamento del quantum dovuto.

Ad avviso della Corte di Cassazione, al fine di consentire l’applicazione dell’esimente in parola, è necessario che la crisi economica venga accertata in modo puntuale ed esaustivo mediante la produzione di documentazione atta a comprovare in modo inequivocabile tale stato.

‍Si tratta, in sostanza, di una specie di forza maggiore che esclude la rilevanza penale dell’omesso versamento.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e non sostituisce l’attività di un avvocato tributarista.

Se hai bisogno di maggiori chiarimenti compila il form di contatto qui sotto o scrivici all’indirizzo mail 4tax.it@4tax.it

Fatture false prescrizione del reato!

Fatture false e prescrizione del reato! Spieghiamo quali sono le pene e il termine di prescrizione.

Prima di entrare nel merito del tema “Fatture false prescrizione del reato” vi invitiamo a farvi prima un’idea sul tema delle fatture false leggendo il nostro articolo “Fatture false: 3 esempi e come difendersi“. 

1. Fatture false: i 3 esempi principali

Come abbiamo visto nel nostro articolo la fattura può considerarsi falsa se:

  • è emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate oppure se viene emessa da un soggetto solo formalmente esistente (le c.d. fatture false per operazioni oggettivamente inesistenti);
  • fotografa un’operazione realmente effettuata, ma il prezzo applicato dal cedente o dal prestatore è di gran lunga più elevato rispetto al valore effettivo del bene o del servizio (le c.d. fatture false per operazioni oggettivamente inesistenti per sovrafatturazione);
  • è emessa da un soggetto diverso rispetto al soggetto che ha reso il servizio o ceduto il bene (le c.d. fatture false per operazioni soggettivamente inesistenti).

2. Fatture false e onere della prova

A chi spetta l’onere della prova nell’ambito dell’emissione delle fatture per operazioni inesistenti?

Il reato di falsa fatturazione deve essere provato dall’Agenzia delle Entrate sulla base dell’articolo2697 del codice civile, secondo cui chi avanza la pretesta tributaria (l’Agenzia delle Entrate appunto) deve provare i fatti a fondamento della sua domanda.

La Corte di Cassazione ha chiarito che è onere dell’Agenzia delle Entrate dare la prova che il contribuente, al momento in cui ha acquistato il bene od il servizio, sapeva o poteva sapere con l’uso della diligenza media che l’operazione era stata effettuata nell’ambito di una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, provando che il contribuente, al momento in cui ha stipulato il contratto, poteva ben comprendere che l’operazione era stata fatta nell’ambito di una frode.

3. Sanzioni penali

Al fine di verificare la prescrizione del reato fatture false occorre innanzi tutto vedere quali sono le sanzioni penali per il reato di falsa fatturazione.

Sanzioni penali per chi utilizza fatture false.

Chi utilizza fatture false al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.

Sanzioni per chi emette fatture false.

Chi emette fatture false al fine di consentire, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, è punito con la reclusione da quattro a otto anni.

Ora, delineate le sanzioni penali per chi utilizza e per chi emette fatture false, occorre porre in evidenza che per tale reato non esiste una soglia minima di punibilità. Questo significa che anche l’utilizzo o l’emissione di una fattura falsa per 0,01 euro è penalmente rilevante.

4. Quando si considera commesso il reato di falsa fatturazione

Il reato di utilizzo di fatture false si considera commesso con la presentazione della dichiarazione in cui viene utilizzata la fattura falsa

Il reato di emissione di fatture false si considera invece commesso con l’emissione e registrazione dell’operazione nei relativi registri IVA.

5. La prescrizione del reato di falsa fatturazione 

La prescrizione dei reati (tributari), tra i quali rientra il reato di emissione o utilizzo di fatture false, è sottoposta ad una disciplina del tutto peculiare.

È importante notare che il decreto legislativo n. 74 del 2000 non prevede specifici termini di prescrizione dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto: la disciplina della prescrizione del reato si ricava dai principi generali di cui agli articoli 157 e seguenti del codice penale.

Nella determinazione del termine necessario a prescrivere tali reati occorre considerare che il termine prescrizionale corrisponde al massimo della pena edittale stabilita per il delitto o in ogni caso ad un tempo non inferiore a sei anni.

Il secondo: in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere.

Pertanto, il termine di prescrizione del reato di frode fiscale per falsa fatturazione o per l’utilizzo di altri documenti per operazioni inesistenti è di 8 anni dal momento consumativo, elevabile a 10 anni per effetto dell’interruzione causata dagli atti interruttivi di cui all’articolo 160 del codice penale che vedremo adesso. Passato tale termine senza che si sia arrivati a una sentenza definitiva vi è estinzione del reato.

Fatture false prescrizione – Tabella

6. Fatture false prescrizione del reato: cosa la interrompe?

Il corso della prescrizione del reato per l’emissione di fatture false è interrotto:

  • dall’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto;
  • dall’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero, o al giudice;
  • dall’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio;
  • dal provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio perla decisione sulla richiesta di archiviazione;
  • dalla richiesta di rinvio a giudizio;
  • dal decreto di fissazione della udienza preliminare;
  • dall’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato;
  • dal decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena;
  • dalla presentazione o dalla citazione per il giudizio direttissimo;
  • dal decreto che dispone il giudizio immediato, dal decreto che dispone il giudizio e dal decreto di citazione a giudizio;
  • dal verbale di constatazione o dall’atto di accertamento delle relative violazioni.

È importante notare che una volta interrotta, la prescrizione del reato comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione. 

Come abbiamo detto sopra gli atti interruttivi della prescrizione non possono comportare un aumento della pena maggiore di un quarto. Per il reato di utilizzo o di emissione di fatture false la pena massima non può essere superiore a 10 anni.

7. Fatture false prescrizione del reato e Corte di Giustizia

La normativa italiana relativa all’interruzione della prescrizione per il reato di emissione di fatture false in materia di IVA è compatibile con la normativa comunitaria?

La Corte di Giustizia ha ritenuto che l’aumento del termine di prescrizione del reato, in caso di interruzione, di non oltre un quarto costituisce un ostacolo a sanzionare in modo efficace le frodi gravi.

Ad avviso della Corte di Giustizia i giudici italiani devono disapplicare le norme interne sulla prescrizione che impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive nei casi di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione Europea.

Ad avviso della Corte di Giustizia, i giudici dovrebbero non applicare le norme sul ricalcolo del termine di prescrizione in caso di interruzione, con l’effetto che, in caso di interruzione, i termini ricominciano a decorrere dall’inizio per intero.

Il presente articolo ha uno scopo puramente informativo e divulgativo.

Le considerazioni in esso espresse non necessariamente si rendono applicabili al tuo caso concreto.

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